Al centro del tuo libro c’è questa specie di gorgo un po’ oscuro fra anti-illuminismo, anticapitalismo di destra e di sinistra e antisemitismo, che si crea nell’Ottocento e che dura fino all’affare Dreyfus. È così?
Il libro è lo sviluppo di una serie di domande legate non solo alla ricerca ma anche alla vita, alla mia biografia politica, che mi faccio da tempo e che, in qualche modo, non hanno risposta, nel senso che non hanno mai una risposta esaustiva e definitiva.
Perché la civiltà industriale, la civiltà tecnica, hanno prodotto una reazione, una barbarie culturale come quella che si è sviluppata tra Otto e Novecento? Perché, cioè, il massimo sviluppo delle tecniche di dominio della natura, del mondo sociale, dell’economia hanno prodotto nello spirito umano forme di reazione che hanno determinato catastrofi come quelle del Novecento, in primo luogo la Shoà?
Perché, all’interno del processo di civilizzazione, che ha prodotto le libertà individuali e quindi l’uguaglianza nel diritto, e quindi l’emancipazione ebraica, la fine, cioè, delle discriminazioni ultra secolari nei confronti delle minoranze religiose e, in particolare, nei confronti degli ebrei, si sono poste le premesse della persecuzione dei diritti e poi della persecuzione delle vite? Perché il socialismo, che nasce come prosecuzione dell’uguaglianza di diritti, della rivoluzione dei diritti, cioè della libertà del lavoro, si trasforma anche, non esclusivamente, in un movimento che produce forme di organizzazione corporativa comunitaria e, addirittura, in una società che poi rapidamente scivola verso la tirannia politica?
Ora, per venire più specificamente alla ricerca, cui hai accennato nella domanda, il nodo fondamentale è un po’ questo: sono convinto che l’antisemitismo moderno sia solo una trasformazione di una tradizione molto lunga, la tradizione antigiudaica cristiana. Detto questo, però, nella nuova cornice giuridica dell’emancipazione, varata per prima in Francia nel 1790 e ‘91, la trasformazione dell’antigiudaismo cristiano in un antisemitismo nuovo ha, a mio avviso, un aspetto determinante che è quello sociale: l’individuazione nella comunità ebraica di una comunità che svolge un’attività estranea e nemica, così come lo era rispetto alla cristianità.
L’ostilità diventa tanto più radicale quanto più si è convinti che proprio l’emancipazione, cioè l’uguaglianza dei diritti, consenta a questo popolo, nemico per natura nei confronti della cristianità, di nascondersi. Non più visibili come quando erano segregati, discriminati, persino visibilmente segnati in attesa della conversione, oggi sono eguali agli altri, quindi simili, assimilati, emancipati e, quindi, più protetti perché nascosti in questa loro attività ostile nei confronti della comunità cristiana.
Di questa attività ostile, il nucleo di gran lunga più importante, a mio avviso e, del resto, molto radicato nei pregiudizi antichi, quindi molto più pericoloso, è la convinzione che le principali attività professionali degli ebrei, come il commercio e la banca, non siano che una trasformazione dell’antica usura, cioè di quell’attività volta a sottrarre volutamente le energie economiche alla società cristiana, considerata, sin dai padri ma anche nella tradizione medioevale, un peccato per eccellenza nei confronti di Dio (l’usura era ritenuta una speculazione sul tempo, dono divino) e della comunità dei credenti.
Questo aspetto è quello che consente all’antisemitismo di diffondersi rapidamente già attorno alla metà del XIX secolo, prima ancora che lo si definisca come tale. La definizione, infatti, è più tarda: sembra che l’invenzione di questo termine sia da attribuire a un giornalista e scrittore di lingua tedesca, già democratico, Wilhelm Marr, che nel 1870 scrisse il pamphlet Antisemitismus, un tentativo di definire gli ebrei non in base alla sola religione: Marr infatti insiste sulla funzione sociale parassitaria degli ebrei. Però, prima ancora che lo si definisca tale, l’antisemitismo aveva già avuto successo anche in ambienti popolari importanti: pensiamo al 1848, a Vi ...[continua]
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