I. Si sa che Maurizio Maggiani “ritrae” (scrive, fotografa, e chi sa cos’altro ancora) con finezza e umanità, dal tempo dell’esordio con Mauri, Mauri, sino alla genealogia de L’eterna gioventù “affamata di un altro mondo” e di “libertà sognate”. “L’anarchia en se po’ dir”, ma Maggiani la sa pensare, eccome.
Di questo 2024 è il suo Calendario intimo della Repubblica. La memoria e la lotta (sempre con Feltrinelli). Il libro viene dedicato a tutti quelli che “vivono nelle macerie” di una Libertà che fu conquistata nel sangue nel 1945, e di libertà che, nel 1945, erano invece “ancora tutte da conquistare: quelle dalla miseria, dall’ignoranza, dalla malattia”, poi con fatica strappate, fino a quelle inaudite (“libertà dall’autorità e di immaginare”) quasi raggiunte nel Sessantotto, e poi perdute. “Sino a vivere in un’età di nuova fame, nuova malattia, nuova guerra”: oggi.
Disperato, ma sempre umano, Maurizio si aggrappa perciò alla propria memoria di vita (del babbo Dinetto, operaio, partigiano: “quel che avam patì noiantri, quel che avam dovù fare, a te en te tocherà mai”) o dei gesti della pietas di un sacerdote e di una vecchia contadina che, ogni anno, lucidano a mano le pietre di una strada di campagna della Romagna (dove Maggiani ora vive), tra Faenza, Tebano, Marzeno: le stesse pietre dove, nell’ottobre 1944, cinque contadini vennero fucilati dai fascisti. All’abuso della damnatio memoriae dei vinti dal potere (Matteotti fatto uccidere e cancellato), Maurizio resiste con l’uso de “la piccola lingua dei contadini ignoranti, (che) può custodire e riparare la memoria”: e i contadini dicevano: “I è sparí come Mateoti”. Memorabile anche: “Te sen sbandà come l’8 settembre”. (E, in fondo, come tutti noi della generazione ribelle ma “orfana” dal punto di vista civile -perché nata nel nulla della guerra totale o del terribile dopoguerra-, anche Maurizio è nato l’8 settembre 1943). Siam sbandati.
Il libro zampilla e sgorga dal rifiuto disperato della desolazione delle macerie presenti e dalla scelta di reagire con l’imperativo del ricordo, come ha scritto Yerushalmi. “Io del portar memoria mi son fatto una passione: preservare dall’oblio chi è stato e ciò che è stato, far testimonianza di giustizia”: se capisco, per Maurizio, passione è atto di elezione, promessa, scelta, che si traduce in sofferenza: elezione per sentimento, e dolore. Ma il dolore lo si può lenire con il lavoro, il disperante lavoro di una fatica senza fine, la fatica della memoria.
Bisogna ricollocare la memoria della vita dei nostri avi nella memoria della Repubblica, e costituirne il calendario, non quello ufficiale, intimo, fatto di “altari di pietà e braci, non ceneri (le ceneri sono i gonfaloni delle cerimonie)”, vivendo la comunione delle braci di memoria sulla montagna di Ca’ di Malanca o nel Castagneto di Fosdinovo: e allora, anche la festa della Liberazione deve essere festa necessariamente divisiva, perché l’Italia è un paese che mai si è assunto sul serio la responsabilità di avere inventato il fascismo. Il Maggiani il fascismo invece lo ha compreso presto, in virtù di un ceffone paterno: al piccolo Maurizio che risponde: “Me ne frego” a qualcosa, il babbo molla: “Io in casa mia, un fascista non lo voglio”. Sacrosanta manata, allora: “Mi son fatto una prima, rudimentale coscienza antifascista intorno ai dodici anni, per vedere di risparmiarmi degli altri patriarcali manrovesci, ho poi raffinato la coscienza non molti anni dopo, lontano ormai dalle grosse mani paterne e per questa ragione propenso a considerare in libertà di cosa intendessero parlare quelle mani, le mani parlanti di un uomo che non aveva che poche parole e con il lavoro delle sue mani aveva edificato tutto ciò che intendeva essere e intendeva che il mondo fosse, tutto ciò che di lui voleva si sapesse, e capisse […]. Coscienza di esser venuto alla luce per mano di gente che, qualora se ne fosse fregata di qualcosa, si sarebbe sentita perduta: fregata della gallina che cova le uova per i figli, del compagno di lavoro, di mandare a scuola i figli ben lavati e pettinati, di tenere pulita la Repubblica”.
Invece, oggi, “ne ho la tattile certezza […] questa nostra epoca si è ingravidata di fascismo… affanculo tutto, viva la morte. Me ne frego. E il popolo, sbigottito, ha preso a esultare […], ed è stato tutto un ballare, […] un sibilare, un canticchiare, un cadenzare di me ne frego. Il popolo si è dissolto in un indistinto puntiforme, la massa irresponsabile”. I ...[continua]

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