Quattro anni fa, l’autore aveva già diagnosticato le patologie occidentali come “la perdita del primato tecnologico e industriale”, “il deterioramento relativo delle aspettative, più che delle condizioni di vita”, “il declino della centralità politica”: processi meno forti in Usa, Australia e Canada; più intensi in un’Europa connotata, a Ovest, da “derive illiberali” e dal “distacco tra élites e cittadinanze”; a Est da tendenze regressive nazionalistiche autoritarie, innescate dal fallimento delle politiche di riforma avviate, dopo il tracollo delle democrazie popolari, in Ungheria, Polonia, Cekia, Slovacchia. Da tali Occidenti, Andrea G. differenziava allora “la grande area costituita dai paesi soprattutto asiatici, […] da decenni in via di rapidissimo sviluppo», e sospinti da dinamiche di modernizzazione [che] permettono ancora ampi margini di crescita”, ma quasi sempre governati da sistemi “molto diversi da quelli liberali”.
In questo suo secondo libro, West e Rest sono distinti l’uno dall’altro piuttosto come “società che hanno ormai superato il picco demografico” e “società ancora in ascesa”. Andrea Graziosi indaga nel West quelli che Italo Calvino definiva “i differenti livelli di realtà” (qui i livelli sono demografia, economia, psicologia sociale, ecc.) alla ricerca delle connessioni tra cause e conseguenze, ma chiarisce subito che è la questione demografica al centro della sua analisi di Stati Uniti (che definisce “non più prevalentemente europei”) ed Europa, “non più solamente occidentale”.
Il nucleo dell’interpretazione è costituito dalle connessioni stabilite tra fenomeni (o livelli di realtà) che di norma vengono presentati come irrelati (vien da pensare, qui, alla lezione di libri come Crossing Boundaries ed Essays in trespassing, di Albert Hirschman). Tra le cause discusse nella parte prima del libro, Graziosi privilegia alcuni fenomeni demografici in corso da decenni (ben prima dell’illusorio baby boom), che vengono analizzati con il conforto della école française di Alfred Sauvy e Pierre Chaunuvi: La vieillesse des nations (titolo di un’opera di Sauvy del 2000) è imputabile alla caduta della natalità, all’innalzamento della speranza di vita, al declino (particolarmente forte in Europa) delle “riserve di energia demografico-economica del mondo contadino”. L’immigrazione extra-europea ne contrasta solo in parte le conseguenze ma, al tempo stesso, contribuisce a complicare la struttura di società definite “plurali”, perché attraversate da fratture orizzontali etniche, religiose, culturali e divisioni verticali determinate dalla formazione, dalle nuove competenze, dal controllo della tecnologia digitale.
Quella che l’autore definisce la “caduta della vitalità” occidentale rimanda quindi alla “incapacità di riprodursi” delle società occidentali e alle aspettative decrescenti -in particolare delle giovani generazioni- correlate al rallentamento produttivo, alla persistenza della disoccupazione, al lavoro precario. Fenomeni accentuatisi negli ultimi decenni, ma che rimontano agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, alla fine dell’etica dell’autosacrificio dell’individuo e della rinuncia a vantaggio della comunità familiare, propria delle società rurali sino alla prima metà del XX secolo. Consumismo, welfare e società di massa avrebbero insomma favorito dagli anni Sessanta in poi le fortune di quella che Cristopher Lasch bollò, nel 1979, come The Culture of Narcissism: l’affermazione diffusa del principio di piacere, il trionfo dell’autoindulgenza, le nuove forme di libertà e di stili di vita lontani “dal fine naturale dei rapporti sessuali: la riproduzione” e l’“insistenza delle donne ad assumere il controllo del proprio corpo”. La conclusione di Lasch era che il mito del progresso, il dominio della tecnologia e l’ins ...[continua]
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