Da anni, città, università, scuole di eccellenza e istituti scolastici di Pisa ricordano l’infamia commessa quel giorno, 5 settembre del lontano 1938, nella Villa Reale di San Rossore. La sigla da parte di Vittorio Emanuele III dei “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, progettati da Mussolini e dai suoi ministri Bottai e Di Revel: primo dei numerosi decreti fascisti che avviarono la persecuzione degli italiani ebrei (e degli ebrei stranieri) e premessa della loro deportazione e sterminio durante la Seconda guerra mondiale.
Alla conoscenza e alla coscienza storica dell’antisemitismo nella storia d’Europa e d’Italia ho cercato di dare per anni il mio contributo, con saggi, lezioni, incontri nell’ateneo e nella Sns di Pisa, come in tante università italiane, francesi, americane, israeliane, palestinesi. Alla riflessione storica ed etica sul 5 settembre 1938, in particolare, ho dedicato la mia presenza nel Comitato Scientifico San Rossore 1938, che organizzò la commemorazione di tutti gli atenei nazionali per l’ottantesimo dei Provvedimenti, nel 2018. È per ragioni di mestiere di storico, dunque, che ho qualche titolo per chiedermi e chiedere: quale funzione possiamo attribuire oggi alla memoria della persecuzione e dello sterminio degli ebrei d’Europa; oggi, cioè, dopo il 7 ottobre 2023, con la guerra di sterminio in corso a Gaza? La coscienza storica si forma nel dialogo tra memoria e storia e s’impegna prima di tutto nella difesa dalle falsificazioni e dall’oblio, ma dev’essere anche monito contro la possibile ripetizione della catastrofe (Primo Levi: è accaduto, può ancora accadere, e non solo agli ebrei). 
È accaduto, in Israele, in Palestina. Il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas mirava tatticamente a distruggere -in sinergia con ayatollah iraniani, huthi yemeniti, hezbollah libanesi- ogni possibile compromesso per la convivenza tra israeliani e palestinesi, come quelli che, a partire dagli anni Novanta, si sono ispirati al paradigma degli accordi di Oslo, sino ai Patti di Abramo. Più oltre, l’obiettivo strategico di Hamas era, dichiaratamente, la distruzione di Israele. Così la strage di ebrei più tragica dopo la Shoah è stata percepita come il ritorno di questa: è accaduto, può ancora accadere.
Ma la risposta militare del governo Netanyahu si è tradotta, a Gaza, in guerra di sterminio ai civili: bombardamenti indiscriminati, fame, sete, deportazione e pulizia etnica. Ufficiali e comandanti israeliani hanno affermato a più riprese che l’esercito avrebbe potuto adottare una condotta profondamente diversa, mentre invece i rappresentanti nel governo dei partiti nazionalisti di destra e religiosi hanno tramutato la politica dei coloni in Cisgiordania in ragion di Stato, legittimando razzie e pogrom.
Liliana Segre ha senza ombra di dubbio tutta l’autorità per definire genocidio una parola malata -qualsiasi cosa ne pensi Francesca Albanese; David Grossman, e gli storici Omer Bartov e Amos Golberg l’hanno invece evocata, quella parola. L’unicità dello sterminio nazista non impedisce certo il confronto storico con altri genocidi, come il Medz Yeghem degli armeni, il Porrajomos di Rom e Sinti, l’Holodomor degli ucraini. Ognuno si rivolga al proprio tribunale, ma nessun tribunale delle parole potrà pronunciare una sentenza univoca. E, con un libro coraggioso, Anna Foa ci avverte: massacri ed estirpazione dei palestinesi dalla loro terra non tutelano la sicurezza di Israele, sono anzi la premessa di un suicidio, e Israele, agendo così contro i palestinesi, agisce in realtà contro se stesso e contro l’ebraismo, perché sollecita un antisemitismo antico, mai sopito.
E distrugge le basi della memoria, dunque di uno dei pilastri della coscienza storica, aggiungo io. La storia non può che essere sempre ripensata dalle radici, e con essa devono essere ripensate le radici e i fini della conoscenza storica. E le radici di questa storia affondano nell’occupazione di Gerusalemme Est, Gaza, Cisgiordania, Golan e Sinai (questi poi restituiti) con la guerra del 1967 contro la coalizione degli Stati arabi. Con la scelta di mantenere negli anni successivi l’occupazione, la “questione palestinese” non è mai stata superata o risolta ma, anzi, è stata inglobata all’interno di Israele.
La “questione palestinese” è da decenni una questione interna e costitutiva dello Stato d’Israele. Yeshayahu Leibowitz, l’eminente studioso israeliano, fu profeta di tale sventura: il nuovo colonialismo ...[continua]

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