In rappresentanza del governo italiano, delle unione delle Comunità Israelitiche italiane e del comitato ricerche deportati, il Colonnello Massimo Adolfo Vitale, mio zio, fu tra i primi a testimoniare gli orrori nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Fu testimone al processo contro il criminale di guerra Rudolph Hoess, processo che si tenne a Varsavia. Descrisse quanto vide, e quanto -incredulo- testimoniò in varie conferenze che tenne a Milano (2 e 13 giugno, 16 luglio 1947) sotto gli auspici del Circolo di cultura ebraico.
L’ho ritrovato nelle mie carte, al lavoro su un libro, e sono felice che Una Città abbia deciso di pubblicare le parole di un uomo che non credeva ai propri occhi, non riusciva a capire che nella natura umana ci fosse tanto orrore. Questo testo ne è un estratto. Sua sorella e sua madre, le mie nonne, erano tra le centinaia di migliaia di vittime non solo di Hoess, ma del popolo tedesco. E non solo. Vorrei ricordare che, come si legge dal libro di Fausto Coen, il ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai fu primo nella “difesa della razza”, come lo furono Starace e Buffarini Guidi.
Quando mio zio, Adolfo Vitale scrisse questa testimonianza, non credo che sapesse del destino di sua sorella e di sua madre; Gemma Servadio, mia nonna, e la madre di lei, Nina Vitale, erano state vittime di Auschwitz. Nonostante si sapesse degli stermini, del genocidio, sarebbe stato impossibile afferrare il senso della pianificata ferocia tedesca: e difatti dalle sue parole, che lui stesso definisce scritte in fretta, traspare l’orrore e l’ansia di far sapere, di non dimenticare, di dire, di lasciare scritto quanto aveva visto.
Ultimamente alla Bbc abbiamo visto un documentario che era stato censurato, fatto per ordine delle forze alleate, le sovietiche per prime; censurato in quanto troppo, troppo, troppo. Gli Alleati avevano voluto fotografare le scene di Auschwitz, avevano voluto portare le signore della borghesia tedesca, con i loro cappellini e i tacchi, ben pasciute, metterle al confronto con quanto avevano finto di ignorare per anni, quelle signore che vivevano con le loro famiglie a pochi metri dai campi di sterminio: le vedi torcere il naso, celare con il palmo di mani curate la visione dei crani svuotati di cervello ai lati dei sentieri sui quali camminano. Proprio come nel racconto di mio zio, è gente che -colpevole- non vuole vedere, non vuole sapere. Non voler sapere, voler dimenticare, è una enorme colpevolezza. Io che ho vissuto la caccia all’uomo, la vergogna di appartenere a una razza colpevole di esistere, anch’io ho cercato di dimenticare. Era troppo.
È un bene che Adolfo Vitale, di getto, abbia scritto quanto segue.
Gaia Servadio
Nell’ampia sala del tribunale a Varsavia, Hoess, l’uccisore di 4.312.000 esseri umani innocenti, era dinnanzi a noi.
Un “piccolo uomo” dall’aspetto quasi normale, senza nessuna delle espressioni di arroganza e di brutalità frequenti nei tedeschi, e più in quelli investiti di qualche carica. Potrebbe venir qualificato come un commesso di negozio o un modesto funzionario; ha gli occhi di continuo sbarrati e il volto lievemente corrucciato, quasi soffrisse per alcuna lieve ingiustizia toccatagli. Segue attentamente le deposizioni dei testi, prende appunti, e preme con le mani sulla cuffia telefonica per meglio raccogliere le parole tradotte in lingua tedesca.
Le cose più orrende vengono dettagliatamente precisate e quando tacciono i testimoni, parlano i documenti, meticolosamente compilati dagli stessi assassini: insulti, percosse, brutalità di ogni genere, fame, impiccagioni e strangolamenti fatti eseguire da compagni delle vittime, bimbi annegati in piccole vasche, cercando disperatamente di aggrapparsi con le manine ai bordi ricacciati nell’acqua dalle Ss, sterilizzazioni e fecondazioni artificiali di giovani donne, castrazione di uomini, uccisioni con iniezioni di fenolo, di evipane e di benzina, sterminazioni in massa nelle camere a gas, fucilazioni, sedicenti esperienze chirurgiche eseguite su viventi senza anestesia; tutto quanto la più perfetta tecnica del male, intesa ad abbrutire lo spirito, a distruggere la dignità umana, a tormentare delle poveri carni sfinite, poteva trovare prima di mandare alla morte è stato fatto nell’inferno di Auschwitz.
E nessun conforto religioso era concesso alle vittime; nessun sacerdote fra i molti, di ogni religione, deportati nei campi, poteva assistere i morituri; nessun rito funebre poteva compiersi.
Hoess ha esplicitamente precisato che tali erano gli ordini dei suoi capi.
Nella loro concezione bestiale di distruggere lo spirito umano e di creare un mondo di bruti, i tedeschi giunsero fino alla mostruosità e alle offese di comprendere fra i “delitti” per cui era comminata la pena della deportazione nei campi di concentramento, che essi con sadica ironia chiamavano “detenzione protettiva”, quello di studioso della Bibbia!!!
Nella fotografia qui riprodotta di un documento ufficiale, stampato dal governo, si rileva che i maestri del Sacro Libro, legge e guida per ottocento milioni di credenti, cristiani, protestanti, ebrei, erano considerati colpevoli come i delinquenti abituali, i pervertiti ed i vagabondi!!!
Non si può con parole descrivere tutti gli orrori; ognuno ascoltando era come sotto un incubo, e, caso raro e forse unico nella storia dei grandi processi penali, uno dei giudici assistenti (un deputato della Dieta polacca) ha versato lacrime a racconto del martirio di un gruppo di bimbi! E il “piccolo uomo” risponde rispettosamente e prontamente alle questioni che gli sono rivolte, con voce eguale, calma, come velata da melanconia. Leggo dalla relazione dello stenografo del dibattimento.
“Non posso confermare che il numero degli uccisi indicato nell’atto di accusa sia esatto; io direi che siano stati 2.500.000, comunque, quale comandante sono responsabile di tutte le morti avvenute in Auschwitz.
Nel 1941 allo scopo di eliminare le persone che non potevano lavorare si iniziò il metodo con le uccisioni di fenolo, o di acqua ossigenata o di benzina o di evipane. La media degli uccisi era trenta al giorno; talvolta si giunse a trecento. Nell’estate del 1941 fui chiamato a Berlino da Himmler che mi informò doversi preparare Auschwitz per lo sterminio di 7.000.000 di persone e non potendo bastare a tale scopo le iniezioni di sostanze velenose, si pensò di usare il gas dei cristalli di “Cyklon B.” adoperato fino ad allora per disinfezioni e disinfestazioni.
La guerra russo-tedesca era cominciata e nuclei di prigionieri russi erano giunti al campo. Su di essi vennero sperimentati tali gas e avendo ottenuto un buon esito se ne iniziò l’uso per le uccisioni in massa. Vennero apprestate quattro camere a gas in Auschwitz e quattro a Birkenau, coi relativi crematori. Era così possibile sopprimere fino a 10.000 persone al giorno e cremare dal 18 ai 20.000 cadaveri nelle 24 ore. Himmler venne a visitare Auschwitz  nel 1943 e seguì tutto il procedimento dall’atto in cui i deportati si spogliavano per entrare nelle camere a gas sino a quello in cui i loro corpi passavano nei forni”.
È troppo spaventoso questo! Bisogna uscire all’aperto per assicurarsi che la vita esiste, con il sole, l’aria, la luce, con degli esseri che non rassomigliano al “piccolo uomo” e alla sua gente!
Ogni giorno del processo è uguale nel suo orrore, e l’accusato non si commuove, non ha mai una parola di rimorso o di rimpianto. Ed è padre di 5 figli di cui l’ultimo nato in Auschwitz e il maggiore aveva allora 12 anni; e viveva con loro e con la moglie nel campo, e nelle serene sere estive cenava con loro in giardino presso la sua casa di dove l’occhio spaziava sulla distesa degli edifici verso la vasta pianura e le ciminiere dei crematori che gettavano di continuo al cielo nuvoli di fumo nerastro.
Hoess non ha rimorsi; non nega alcuna delle accuse mossegli, precisa di avere eseguiti degli ordini e assume la sua responsabilità.
I “grandi” di Norimberga cercarono disperatamente di addossarsi l’un l’altro le loro colpe o di addebitarle a Hitler o Himmler; egli invece non pronuncia una parola di critica o di accusa contro alcuno dei suoi capi; appare più come un importante testimone desideroso di far conoscere la verità che come un accusato di fronte ai giudici.
La sua voce monotona continua nel silenzio angoscioso della sala. Leggo ancora dal resoconto stenografico del processo.
“L’odore dei cadaveri bruciati si sentiva nella mia abitazione ma i miei figli non si rendevano conto di ciò che accadeva; mia moglie invece ne era a conoscenza. Ogni giorno partivano dagli otto ai dieci vagoni di effetti usati provenienti dai detenuti nei campi; tutto veniva inviato in Germania per la popolazione. I capelli tagliati ai cadaveri prima della cremazione servivano a una fabbrica in Baviera per farne cavi per la Marina da guerra. L’oro dei denti, egualmente tolti ai cadaveri, veniva fuso in lingotti nei campi e spedito, ogni due o tre mesi, alla Banca del Reich a Berlino; gli oggetti preziosi, che sempre si rinvenivano cuciti nelle vesti di quelli passati direttamente ai gas, erano posti in casse speciali e spediti a Berlino ove una particolare sezione della Banca del Reich provvedeva a cambiarli in Isvizzera contro moneta pregiata”.
 
Hoess parla come il dirigente di un’azienda che riferisca sulla sua attività, e ha un solo orgoglio: di essere stato perfetto nel disimpegno dei suoi incarichi.
Quando un teste austriaco accenna a vittime passate per un suo ordine al crematorio ancora viventi e soltanto addormentate, essendo usata scarsa quantità di gas, di cui erano rimaste limitate riserve nel campo, Hoess chiede la parola. Si pensa voglia respingere l’accusa, specificando che non avrebbe mai potuto dare ordini del genere. Invece con perfetta calma precisa:
“Quanto riferisce il teste non corrisponde a verità: io avevo sempre larghe riserve di gas e quando accadde che queste diminuirono e le ferrovie erano interrotte, organizzai una colonna di autocarri per prelevare il ‘Cyklon B.’ a Dachau. Se uno dei testi potesse provare che io sono venuto meno, anche in un dettaglio, agli ordini ricevuti, io sarei meritevole non di trovarmi di fronte a questo tribunale, ma innanzi a quello delle Ss per disobbedienza”.
Il pubblico Accusatore gli dice:
“Voi provvedevate a mantenere abbondanti riserve di gas come le mamme si premurano di tenere riserve di latte per i loro figli?”
“Era precisamente per questo che io ero nel campo”.
“Ah voi eravate nel campo per assicurare che vi fosse sempre del gas e che fossero sempre delle vittime da asfissiare”.
“Questi erano gli ordini impartitimi”.
“E li avete eseguiti?”
“Sì”.
“Con zelo?”
“Sì”.
Il giorno 29 marzo alla chiusura del dibattimento, quando ebbe per ultimo la parola, con eguale calma disse:
“Il mio silenzio dopo le deposizioni di alcuni testi ha potuto essere interpretato quale completa accettazione delle loro dichiarazioni che mi hanno fatto apparire come unico autore di tutto quanto avveniva in Auschwitz. Molte cose colà si compivano in mio nome e io le ignoravo. I miei incarichi erano numerosi e gravi; molti fatti mi vennero celati e li ho appresi durante il dibattimento. Io non ero ben voluto dai miei dipendenti i quali mi temevano, perché molto esigevo e punivo chi mancava; per questo mi si è accusato di non aver cercato di evitare certe brutalità.
All’inizio del mio servizio in Auschwitz ho richiesto di andare al fronte ma mi venne rifiutato; ripetei la richiesta in seguito ma Hitler e l’ispettore generale dei campi di concentramento confermarono il rifiuto perché ero a conoscenza di troppe cose che dovevano restare segrete.
Per terminare voglio dire ancora: sin dal primo giorno ho dichiarato che nella mia qualità di comandante sono completamente responsabile di ciò che è avvenuto a Auschwitz, di ciò che fu di mia conoscenza e di ciò che ignorai; ma io personalmente non ho maltrattato, non ho ucciso nessuno e di nulla mi sono appropriato: Tutto quanto fatto è stato per ordine dei miei capi e non per mia iniziativa; ma con questo non voglio diminuire la mia responsabilità. Finisco la mia deposizione”.
A richiesta del Presidente se avesse qualche domanda da rivolgere al Tribunale, risponde:
“Chiedo mi si permetta di scrivere una lunga lettera alla mia famiglia e di inviarle il mio anello. È tutto”.
In quello stesso giorno alla fine dell’udienza, ho avuto cortese autorizzazione dal Pubblico Accusatore di intrattenermi a colloquio coll’imputato, in una piccola sala attigua a quella del Tribunale.
Hoess venne scortato da una Maresciallo e da due gendarmi.
Il logoro cappotto militare, dal ben noto colore grigio ferro, che ricopre la sua uniforme di ufficiale delle Ss senza distintivi lo fa apparire ancor più modesto e insignificante.
Richiestogli se parlasse inglese, mi disse che sì, ma che preferiva rispondermi in tedesco. Il mio cortese accompagnatore Professor Batavia, della Cattedra di Criminologia dell’Università di Plausk, fece da interprete.
Gli chiesi subito ansiosamente se ricordasse qualche particolare ordine dato o ricevuto circa deportati italiani e circa il doloroso convoglio di 1.080 nostri connazionali (fra cui 800 donne e bimbi in tenera età) che strappati dalle loro case da sgherri nazi-fascisti il 16 Ottobre del 1943 in Roma e partiti il 18 raggiunsero Birkenau il 24 (15 uomini e una donna sono tornati, e degli altri non si ebbero più notizie).
Nell’emozione del momento dissi 15 ottobre 1944, subito mi corresse: “Non è possibile; nell’ottobre del ’44 non si effettuavano più convogli”. Precisai la data e mi rispose che rammentava di aver avuto degli italiani nei campi ma dato il movimento dei campi stessi non poteva ricordare speciali ordini di nessun genere. La sua voce è, come sempre, calma; io invece sono commosso al pensiero delle innumeri vittime che quest’uomo, che mi è così vicino, ha mandato alla morte. E non posso trattenere una domanda:
“Dato che voi vivevate nel campo con vostra moglie e i vostri figli, vedendo quelle povere mamme e quei bimbi che andavano a morire, non avete mai pensato alla vostra famiglia e non avete mai sentito rimorso?”.
“No, avevo degli ordini e dovevo farli eseguire: Qualche volta ho pensato che il mio compito era grave, ma se Hitler e Himmler ordinavano, non potevano esserci errori e bisognava farlo”.
Vorrei gridargli: cosa sei un pazzo? Un sadico? Un mostro in forme umane? La voce quasi mi trema e gli chiedo ancora:
“Ma se gli ordini fossero stati di uccidere vostra moglie e i vostri figli li avreste eseguiti?”.
“Sì e dopo mi sarei ucciso”.
Non ho potuto più rivolgergli altra parola! Ho fatto un cenno al maresciallo e il “piccolo uomo” si è allontanato tra i gendarmi dopo un rigido saluto sull’attenti.
Sono rimasto a guardarlo mentre percorreva il lungo corridoio fuori dalla sala, e ho pensato alle dichiarazioni americane circa… il felice successo dei corsi trimestrali per la democratizzazione del popolo tedesco!!!

Il testo completo della testimonianza di Massimo Adolfo Vitale sarà pubblicato prossimamente in un libretto di “una città”.