Non erano mancate obiezioni alle impostazioni dei primi piani di pace che i diplomatici Cyrus Vance e Lord David Owen, e altri dopo loro, avevano proposto ai tavoli delle trattative a partire dal 1992, e che porteranno al trattato di Dayton nel 1995, con un sistema di democrazia consociativa, attraverso la ripartizione del potere su base etnico-territoriale e la partecipazione proporzionale alla gestione dello stesso da parte dei diversi gruppi. Scrive nel 2001 il prof. Joseph Marko -già giudice della Corte costituzionale di BiH e fondatore dell’Istituto sulle minoranze all’Accademia Europea di Bolzano- che non ha prodotto i risultati sperati “l’idea fondamentale di un sistema di democrazia consociativa etnica imposto a Dayton, ossia il raggiungimento di un consenso (sia pure minimo e limitato alle élites, ma sufficiente a non far precipitare l’intero sistema in una nuova guerra civile) attraverso la ripartizione del potere su base etnico-territoriale e la partecipazione proporzionale alla gestione dello stesso da parte dei diversi gruppi”.

Incontrandoci nel settembre 1991, nel quadro di una “carovana di pace” attraverso tutta la Jugoslavia, con il Presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegovic (che allora, insieme al suo collega macedone Kiro Gligorov, si stava spendendo con tutte le sue forze in un’opera di disperata mediazione tra i secessionisti croati e sloveni, da un lato, e il blocco serbo-montenegrino, dall’altro), ascoltammo queste sue parole: “Se la Jugoslavia cade a pezzi e ognuno vuole stare da solo, per proprio conto, è molto difficile che la Bosnia Erzegovina possa sopravvivere: è una sorta di Jugoslavia in miniatura, con un ampio pluralismo etnico e religioso, dove la volontà di pace è molto forte -le manifestazioni di massa contro la guerra e di unità della popolazione lo dimostrano. Speriamo che questo processo di disintegrazione possa essere fermato prima che frammenti il nostro Paese: qui, dove sarebbe ancor più doloroso che altrove spaccare la convivenza pluri-etnica e separarsi lungo linee etniche, lo scontro diventerebbe particolarmente sanguinoso; per dividerci e ottenere linee nette bisogna dividere anche le case e i letti”.

Izetbegovic, presidente “musulmano” di una complicata presidenza collettiva a rotazione, è stato, purtroppo, facile profeta. Fin dallo scoppio violento del conflitto serbo-croato, nel tardo autunno 1991, si capiva che le due grandi nazioni ostili avrebbero cercato di riunire da un lato tutti i serbi (persone e territori), dall’altro tutti i croati (persone e territori), non fermandosi davanti alla Bosnia Erzegovina o ad altre regioni miste (Vojvodina, Macedonia, Kosovo, Montenegro). Così la proclamazione dell’indipendenza della Bosnia Erzegovina nell’aprile 1992 – atto compiuto, con un referendum, per non restare nella mini-Jugoslavia sotto lo schiacciante predominio serbo – è stata sì formalmente riconosciuta, ma mai presa veramente sul serio dalla Comunità europea e internazionale. Anzi, dopo le prime aggressioni serbe dell’aprile 1992, la Ce nel suo vertice di Lisbona non trovò di meglio che suggerire una sorta di “cantonalizzazione etnica”, per venire incontro alle pretese (soprattutto serbe e croate) di omogeneità etnica. I c.d. “musulmani”, cioè gli slavi islamizzati nel tempo della dominazione ottomana e diventati nei secoli la componente più urbana, più moderna e più laica della società bosniaca (grosso modo un 40% dei circa 4,5 milioni di abitanti), e le centinaia di migliaia di bosniaci “inter-etnici” (tantissimi matrimoni sono misti) erano ovviamente i più contrari a tale idea, mentre serbi e croati vi vedevano un incoraggiamento alle loro spinte di pulizia e omogeneizzazione etnica.

Seguirono mesi e mesi di aggressioni e di guerra, nei quali, in una prima fase, musulmani e croati combattevano insieme contro i serbi (più forti, più aggressivi, meglio armati e sostenuti da Belgrado), mentre successivamente sempre di più si aprì anche lo scontro tra croati e musulmani. Nel gennaio 1993 i due mediatori internazionali Cyrus Vance (per l’Onu) e Lord David Owen (per la Ce) proposero un “piano di pace”: prevedeva che l’unità della Repubblica di Bosnia Erzegovina venisse assai affievolita, conservando sì un governo e un Parlamento centrale, ma con pochi poteri, mentre dovevano essere formate dieci province autonome, sostanzialmente su base etnica, con notevoli poteri di autogoverno: tre province serbe, tre province croate, tre province ...[continua]

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