(Pirkè Avot, 1:14)
Scrivo perché quando ho pensato di farlo ho avuto paura. Per la prima volta in vita mia ho avuto paura delle mie idee, di quel che pensavo, temendo che non fossero corrette, non fossero giuste, che sarei stata attaccata. In passato ho avuto tante idee, tante discussioni, ho battagliato e spesso ho cambiato idea. Ma la paura? Quella è nuova: non ho avuto paura di oppormi ai brigatisti, né della polizia, ma ho paura perché i criteri del pensiero sono mobili. Le idee hanno bisogno di libertà per crescere. Il clima di adesso mi ha fatto venire in mente le sessioni di autocritica che deridevo, la banda dei 4, le confessioni cristiane o i processi senza contraddittorio in cui si dilettava la Casa delle donne di Torino che frequentavo e di cui sono stata una delle fondatrici, che mi hanno causato dolore ma non paura. Adesso mi faccio il processo da sola, e mi faccio paura perché magari quello che penso non è “giusto”. Smettere di pensare è sempre un’opzione, ma ho deciso di scrivere perché smettere di pensare non è nella mia natura.
1) È in corso uno spostamento dal che cosa (ovvero l’oggetto della discussione) al chi (ovvero la persona singola e le sue emozioni) e quindi un argomento diventa giusto o sbagliato a seconda di chi ne parla, non per il suo contenuto e le sue argomentazioni. Uno degli aspetti grandiosi del femminismo fu quello di ridefinire il che cosa sono o vogliono essere le donne, scrostando la vecchia definizione imposta, trasportando nello spazio pubblico quello che era stato forzatamente tenuto nello spazio privato per evitarne la negoziazione. L’attuale epoca identitaria non solo ci ha portato a ritroso, ma ha assunto la non negoziabilità dell’identità come cifra del dibattito pubblico, per cui per esempio si è discriminati o favoriti (nei due sensi a favore o contrari) a seconda della razza, etnia o genere: questa è la fine della discussione, perché una discussione libera richiede che non ci siano né discriminazioni né privilegi. È la fine della politica democratica. La discussione e lo sviluppo di nuove idee chiede di non aver paura di sbagliare, perché succede, e di poter cambiare idea senza che sia un tradimento. Nel mondo identitario l’altro/a da sé è il bene o il male (a seconda delle opinioni). Il personale è politico, lo slogan di molti anni fa, non voleva dire che i fatti miei sono politici (cosa che in parte è successo adesso se le persone sono personaggi pubblici) ma che le sfere considerate private (nel senso etimologico, ovvero esentate dallo spazio pubblico) come il lavoro domestico, il contratto sociale in famiglia, la cura dei figli, la violenza, erano invece questioni politiche e quindi andavano incluse nella contrattazione della sfera pubblica.
2) Il punto precedente porta alla discussione sui criteri, sui parametri e se questi siano o meno discriminatori. A mio parere tutti i parametri sono dei costrutti culturali e non esistono né paramentri né “culture naturali” -una definizione ossimorica. Il femminismo è stato un movimento identitario per un verso (solo le donne sanno quello che le donne sentono) basato su una differenza esperienziale diversa per motivi biologici, per stereotipi culturalmente sedimentati, e al contempo non identitario (nel rifiutare quel che il destino detto socio-biologico predeterminato delle donne prevedeva). In un’epoca in cui le donne avevano meno scelte era possibile pensare a due o tre modelli di identità, mentre ora c’è per fortuna una maggiore varietà di identità e di immagini sociali. Come detto, i criteri sono anch’essi costrutti culturali, ma, a differenza delle identità, possono essere discutibili, negoziabili nell’arena pubblica. Oggi siamo arrivati a un estremo per cui se a una presentazione pubblica una persona, magari donna, magari non europea, dice delle banalità, o insulta i/le presenti (come se fossero tutti/e responsabili) il pubblico si spella le mani (o viceversa condanna per partito preso) invece di ascoltare quello che dice, ragionarci e giudicarlo. Perché il giudizio esiste e va esercitato.
3) C’è stato uno spostamento da oppressi/e a vittime. Anche questo è uno spostamento concettuale epocale perché nel primo caso (oppressi/e) si presuppone di ribaltare una relazione cambiando ambedue le parti. In altre parole i nostri sogni di rivoluzione prevedevano non tanto di fare un cambio delle p ...[continua]
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