Verrà un giorno, neanche troppo lontano, in cui la figura di Nicola Chiaromonte avrà uno spicco luminoso tra quelle dei migliori e massimi italiani del nostro tempo.
Paolo Milano
Chiaromonte mi interessava in quanto autore di Credere e non credere, così si intitolava in italiano il volume delle sue riflessioni sull’individuo impigliato nella tempesta della storia. Io preferisco tuttavia il titolo dell’edizione inglese, The Paradox of History. In questo volume, l’unico allora pubblicato oltre a La situazione drammatica (raccolta di recensioni e articoli teatrali), l’autore non si rivela del tutto, ci parla come per interposta persona, attraverso l’analisi delle situazioni morali, politiche, esistenziali che appaiono sulle pagine di Stendhal (Fabrizio del Dongo a Waterloo), Tolstoj (Il principe Andrej e il principe Bagration ad Austerlitz), Roger Martin du Gard (Antoine e Jacques Thibault), Malraux (La condizione umana), Pasternak (Il dottor Zivago). Ma mi interessava soprattutto il personaggio Chiaromonte, le sue scelte, le sue riflessioni. Apprezzavo la distanza che metteva tra il trambusto della modernità, la disputa odierna, il linguaggio di oggi sottoposto all’atrofia ideologica e il proprio pensiero. Volevo, tuttavia, ascoltare le sue esperienze personali. Notai una visione più soggettiva di Chiaromonte nelle pagine del saggio “Sul fascismo”. Il testo mi sorprese per la sua perspicacia intellettuale. Scritto prima della guerra, a Parigi, parla della concreta situazione politica della metà degli anni Trenta. Le sue riflessioni mi diventarono utili per la comprensione della situazione polacca negli anni Settanta e, ancora oggi, nei primi anni del XXI secolo, i ragionamenti del giovane italiano di settant’anni fa rimangono vivi e illuminanti. Vi si fa strada l’abilità di Chiaromonte, capace di afferrare la realtà sotto le maschere di attuali o anacronistici costumi. L’autore descrive la nascita della coscienza antifascista, la propria coscienza. Al principio, confessa, si trattava di un semplice riflesso morale, reazione della coscienza, nella quale l’elemento politico si limitava alla convinzione che di fronte a certi fenomeni si può essere solo contro. A questi fenomeni appartiene l’uso ideologico della forza. Chiaromonte analizza, poi, la semantica totalitaria. Il fascismo rappresenta il tentativo di separazione delle parole dalla realtà. Sottopone il linguaggio al controllo ideologico. Le parole non significano più quello che significavano, ma ciò che richiede la linea del partito; la polizia politica impone il senso, l’ambito della comprensione tra gli uomini. Chiaromonte, nelle sue riflessioni sul fascismo, centra l’attenzione sulle ambizioni logocratiche dei sistemi totalitari. In seguito, altri si occuperanno di questo aspetto, del potere sulle parole quale condizione di assoluto dominio delle menti e dei cuori: George Orwell in 1984 illustrerà l’azione del nuovo linguaggio; Victor Klemperer dedicherà alla questione mirabili analisi in Lti, Lingua Tertii Imperi (La Lingua del Terzo Reich), annotazioni del filologo marchiato con la stella di Davide, che sopravvisse nella Germania nazista e che come unica arma di difesa aveva l’osservazione della struttura della lingua ufficiale per smascherare i meccanismi della menzogna; Aleksander Wat, in Chiave e gancio, offrirà un’analisi acuta della semantica sovietica e del ruolo della letteratura nella “statalizzazione” delle coscienze, nell’espropriazione della libertà del pensiero dei sudditi; una lettura simile, del pericolo per le anime rappresentato dal totalitarismo, indicherà Zbigniew Herbert in alcuni versi, in particolare ne Il mostro del signor Cogito (le enormi fauci della nullità che spuntano dalle nebbie rappresentano, nella tonalità poetica, considerazioni simili a quelle del giovane esiliato italiano nel suo saggio); Alain Besançon svelerà gli strati della finzione e della menzogna nell’interpretazione comunista della realtà. Chiaromonte fece queste scoperte straordinariamente presto, per conto suo. Il suo testo, quando lo lessi, mi parve importante e utile nel mio dibattermi col problema del senso e della verità, del linguaggio che cela e del linguaggio che svela. Dunque, nel mio articolo su Chiaromonte pubblicato in “Tworczosc”, non solo esposi le tesi fondamentali del saggio “Sul fascismo”, ma lo tradussi. Fu pubblicato, con una mia breve introduzione, nel mensile cattolico liberale “Wiez” (redattore capo era Tadeusz Mazowiecki, più tardi consigliere di Solidarnosc e primo capo di un governo non comunista in Polonia).
Ci siamo incontrati all’indomani della soppressione della rivolta ungherese nel caffè Rosati a via Veneto. Nicola Chiaromonte era teso, lo notai subito. Tra gli scrittori e artisti italiani, eccezion fatta per un piccolo gruppo di persone indignate e propense a esprimere la propria indignazione, la maggioranza “progressista” si divertiva a indovinare “quanti dollari fossero stati spesi dall’America per la sovversione ungherese”. Abbiamo cominciato la conversazione dall’Ungheria, ho visto crescere la tensione di Nicola, ho pensato che risorgeva in lui lo spirito della squadriglia di Malraux in Spagna (ne fece parte). All’improvviso entrò nel caffè un celebre scrittore italiano che preferisco non nominare, e domandò se poteva unirsi a noi. Non lo conoscevo di persona, ma lo conosceva bene Nicola, il quale fece cenno di sì ma non fu molto incoraggiante. Appena il celebre scrittore si sedette di fronte a noi, ritenne opportuno ripetere lo slogan comunisteggiante sui “dollari americani a Budapest”. Nicola diventò pallido, lo mandò via in malo modo dal nostro tavolino, e per molto tempo non riuscì a placare la sua agitazione.
Lo guardavo in silenzio; probabilmente in questi lunghi minuti avvenne il coup de foudre al cospetto di una tale solidarietà e sensibilità, più unica che rara allora in Italia.
Il saggio “Sul fascismo”, scritto in francese, pubblicato in forma ridotta nel 1936 sulla rivista parigina “Europe”, era totalmente sconosciuto nel momento in cui ne presi visione. Dunque, la prima pubblicazione integrale del testo avvenne nella Polonia comunista, almeno ufficialmente, quarant’anni dopo la sua prima apparizione. Il saggio suscitò l’interesse del ristretto gruppo di coloro che all’epoca cercavano di raggiungere la libertà di pensiero, cercavano una voce libera, volevano osservare la realtà e per far questo avevano bisogno di strumenti. Il testo di Chiaromonte si rivelò per alcuni rappresentanti del nascente pensiero indipendente polacco uno di questi strumenti: mi ricordo con quale interesse reagì a questa pubblicazione Adam Michnik.Gustaw Herling
Come incontrai i testi di Chiaromonte? E perché ho deciso di scriverne? Perché rappresentavano per me una scuola di approccio, l’ausilio per ritrovare la voce libera? Essi occupano un posto importante nella mia “storia privata della libertà”. Così definii il ciclo di testi che iniziai a pubblicare agli inizi degli anni Settanta sulla stampa polacca, quella più aperta, anche se, come tutte le pubblicazioni, restava sotto il controllo della censura del partito. Così chiamavo la ricerca complessiva della propria voce, problema per me essenziale. A partire da quello su Nicola Chiaromonte, iniziai a pubblicare mensilmente su “Tworczosc” dei saggi sui libri che per me rappresentavano la scoperta e il rafforzamento della libertà individuale e che permettevano di vedere meglio la realtà circostante. In precedenza, pronunciamenti pubblici sui temi per me sostanziali mi sarebbero sembrati impossibili. Sapevo che le mie opinioni rimanevano in contrapposizione totale con l’ideologia ufficiale, imposta.
Possedevo un mio elenco di scrittori, pensatori, artisti, che rappresentavano il modello di osservazione del mondo, di se stessi e della società. Da loro avevo imparato a parlare, con loro conversavo, ma si trattava di conversazioni del tutto segrete, con tutte le deformanti conseguenze di tale situazione. Sapevo bene che non era permesso parlare in pubblico dei più eminenti scrittori polacchi contemporanei, le cui opere scoprivo con difficoltà, di coloro che toccavano la realtà, parlavano a me, parlavano di me. Di questi scrittori -Witold Gombrowicz e Czeslaw Milosz sono solo due degli esempi più luminosi- i libri erano vietati. Cercavo di avere accesso alle loro pubblicazioni. I libri polacchi e le riviste pubblicate all’estero, prima fra tutte “Kultura”, erano perseguitati dalle autorità con particolare accanimento. Di più facile reperimento, anche se pure con i dovuti accorgimenti, erano i libri e le riviste in lingua straniera, dove venivano trattate le problematiche della libertà e venivano analizzati in maniera critica i dogmi dell’ideologia comunista. Nella biblioteca dell’Università di Varsavia (fino a un certo momento) si poteva prendere visione di “Preuves”, mensile pubblicato sotto l’auspicio del Congresso per la libertà della cultura (vi apparivano anche i testi di Chiaromonte). Come materia degli studi scelsi tuttavia la letteratura francese del XVII secolo; ritenevo di poter trovare in questo modo una nicchia ecologica, libera dall’inquinamento ideologico dell’atmosfera. In quel periodo, a metà degli anni Sessanta, feci alcuni viaggi a Parigi. Conobbi persone di cui ammiravo le opere -Jozef Czapski, Aleksander Wat, Konstanty Jelenski, più tardi Jerzy Stempowski, Witold Gombrowicz, Gustaw Herling-Grudzinski, Czeslaw Milosz-; per la prima volta leggevo apertamente i loro libri e le pubblicazioni di “Kultura”. A Varsavia, per ovvi motivi, non raccontai né di questi incontri né di queste letture. La parte sostanziale della mia vita spirituale rimaneva dunque nascosta. Si trattava di uno stato di strana schizofrenia che non favoriva una franca conversazione, un creativo scambio di pensiero e di sentimento. Nell’autunno del 1965 iniziai anche, in qualità di libero uditore, gli studi filosofici. Tra gli studenti di quell’anno strinsi amicizia con Andrzej Rapaczynski, più giovane di me di qualche anno. Mi parve più libero di tanti miei coetanei, più aperto al mondo. Parlavamo molto. Nell’estate del 1967 ci preparavamo per un viaggio a Parigi. Andrzej partì per primo. Scrissi dalla Polonia a Jozef Czapski annunciando l’arrivo del mio amico. Quando arrivai a Parigi ci incontrammo in tre, c’era anche Czapski. Con Andrzej intraprendemmo il viaggio verso il Sud. Le nostre strade si divisero a Mentone. Andrzej proseguì per l’Italia, io tornai a Nizza e Vence. Lì conobbi Witold Gombrowicz. Arrivò il marzo 1968. Per me, come per tutta la mia generazione, si trattò di uno shock. Non voglio dire che persi delle illusioni riguardo all’essenza del sistema comunista, perché non me ne ero mai fatte, ma si creò una sorta di solidarietà generazionale che, pur nello spavento per la menzogna ufficiale, per la campagna antisemita diretta dal partito e dalla polizia, ci diede anche modo di conoscere il gusto della libertà e dell’appartenenza. Un’intera generazione di studenti gridava pubblicamente insieme: “La stampa mente”. Cominciarono le conversazioni più sincere, impensabili in precedenza; ebbe inizio la ricerca di un linguaggio capace di cogliere qualcosa della realtà. Ricerca delle radici, dell’albero genealogico intellettuale, ricerca delle persone che avevano attraversato fatiche simili. Una parte dei miei amici partì in esilio. Mio fratello maggiore Jakub si ritrovò in carcere accusato inizialmente di essere l’organizzatore delle proteste studentesche, più tardi di avere contatti con “Kultura” e di far contrabbando della parola libera. Andrzej Rapaczynski lasciò la Polonia. Ne informai Jozef Czapski e lui, a sua volta, si rivolse a Nicola Chiaromonte raccomandandogli il giovane polacco. Andrzej, durante il soggiorno a Roma, in attesa del visto americano, divenne ospite frequente di via Ofanto. Mi scrisse a Varsavia che reputava l’amicizia con Nicola Chiaromonte un magnifico dono della sorte.
Allora sapevamo ben poco del suo passato. Lui non ne parlava. Gli anni da fuoriuscito, la guerra in Spagna come pilota della squadriglia di Malraux, la fuga dalla Francia, tutte queste cose le abbiamo sapute a poco a poco e non da lui. La sua leggenda è cresciuta per le più diverse testimonianze. Abbiamo saputo da altri come si sia portato sulle spalle la prima moglie malata, nella bufera, fuggendo senza un soldo attraverso la Francia invasa dai tedeschi. E come lei, tisica, in quella fuga sotto la bufera, sia morta di stenti. Non ho mai osato chiederglielo, ma so per certo, da un suo amico, che ha dovuto scavarle lui stesso la fossa.
Un americano della Chiesa Unitaria, che era a Tolosa per aiutare i profughi politici, mi ha raccontato un’altra storia di quei giorni che è proprio tipica di Nicola. La sua organizzazione aveva fornito documenti falsi a tutti i fuorusciti antifascisti. Un giorno compare un poliziotto, va da Nicola e gli fa: “Documenti per favore”. E lui risponde: “I veri o i falsi?”. È andato in prigione e non so poi come ne sia uscito.
Mary McCarthy
Dopo il marzo ’68 fui espulso dall’università. Nelle strutture ufficiali non c’era più posto per me. Dal momento che non riuscivo a trovare rifugio nel XVII secolo francese e a occuparmi delle tragedie di Racine, decisi di provare a parlare di ciò che davvero mi interessava. Dopo la caduta di Gomulka il clima politico era divenuto più sopportabile. I vapori ideologici avvelenavano un po’ meno l’atmosfera, anche se la censura e la polizia politica continuavano a esistere, pronte a reagire in ogni momento di fronte al pericolo “per le conquiste del socialismo”. Tuttavia, la menzogna ufficiale era sulla difensiva; la gente iniziava a parlare con un linguaggio più normale, anche di temi fino allora proibiti: temi di storia contemporanea, di pensiero politico e sociale. Fu il timido inizio di una società civile. Uno degli elementi di questo processo fu l’uscita dal cerchio maledetto del linguaggio pietrificato sottoposto al controllo ideologico. Iniziai a pubblicare nel “Tygodnik Powszechny” (“Settimanale Universale”), anche in “Tworczosc”, sui temi del pensiero politico, sulla questione della libertà, la libertà dei cittadini, la libertà della parola. Andrzej Rapaczynski studiava negli Stati Uniti, ma le vacanze cercava di passarle in Italia. Nicola Chiaromonte rappresentava un importante elemento del suo legame con questo paese. Nel 1971 progettava comuni vacanze estive con Nicola e Miriam. Mi invitò, ma mi rifiutarono il passaporto. Ci promettemmo di posticipare questi progetti all’anno successivo. Nell’estate del 1972 ottenni il passaporto. Nicola Chiaromonte non era più in questo mondo. Morì nel gennaio 1972 per un attacco cardiaco. Con Andrzej ci incontrammo a Venezia. Continuavamo le nostre conversazioni iniziate a Varsavia. Per la prima volta visitavo l’Italia. Anche questo fu un elemento importante della mia storia privata della libertà. Mi immergevo nelle voci del passato, imparavo a parlare liberamente. Quante volte a Venezia, a Ravenna, a Siena, ad Assisi, Perugia, Roma, Siracusa, e in maniera più limpida davanti al Palazzo della Signoria di Firenze, ebbi l’opportunità di sentire con forza l’evidenza dei legami tra la politica e l’arte! I palazzi e i monumenti mi raccontavano cosa significasse essere un cittadino consapevole dei propri legami e diritti, membro della collettività, capace di comprendere la lingua di pietre, sculture, piazze, ponti; consapevole delle conquiste del passato e delle prospettive del futuro da esse aperte. Capace di comprendere il ruolo regolatore della memoria e quello creativo dell’immaginazione.
Pronunzi il suo nome, ma a tutti è sconosciuto
o perché quell’uomo è morto
o perché la celebrità ha seguito un altro corso
Chiaromonte
Miomandre
Petofi
Mickiewivz
Le giovani generazioni non si interessano
a quel che è stato altrove e in altro tempo
Czeslaw Milosz
Andrzej tornò negli Stati Uniti prima. Chiese a Miriam Chiaromonte di ospitarmi. Mi fu offerta un’accoglienza generosa e calorosa che non dimenticherò mai. Cominciai a essere ospitato in via Ofanto. Visitavo la città, ma passavo anche lunghe ore nello studio di Nicola Chiaromonte. Avevo accesso ai suoi testi, anche a quelli inediti. Tra essi trovai il saggio “Sul fascismo” e scorsi in esso spunti che avrebbero potuto contribuire alle mie conversazioni con Andrzej; spunti che sarebbero divenuti un elemento importante nella mia personale storia della libertà. Ecco qualcuno che rispondeva a una sfida simile a quella con cui mi misuravo! Accadeva molti anni prima, in un altro paese, in una situazione per tanti aspetti differente, ma la risposta data da lui risuonava come fosse stata formulata ieri, o meglio, domani. Come se fosse stata pronunciata per me. Chiaromonte descriveva come lui stesso avesse imparato a parlare con voce libera, come cercasse di andare oltre gli schemi paralizzanti dell’ideologia, come apprendesse a parlare con altri, con il passato, con se stesso. Delineò -lui non chiamava così la sua strada, ma dalla mia prospettiva odierna così la definirei- una propria personale storia della libertà, raccontò la conquista della parola libera attraverso l’analisi della follia della politica totalitaria. Che sollievo sentire la voce del singolo che parla delle questioni riguardanti l’individuo e la società, che dice cose originali, convincenti, libere dagli schemi ideologici e soffocanti. Al ritorno a Varsavia iniziai a scrivere con regolarità i saggi in cui annotavo ciò che allargava e rafforzava la mia percezione della libertà. Il primo testo fu dedicato, come ho ricordato, a Nicola Chiaromonte (dopo anni, nel 1985, fu pubblicato in Italia, nella nuova edizione di “Tempo presente”, la rivista fondata e redatta da Chiaromonte e Ignazio Silone). Il viaggio in Italia era stato per me un’esperienza importante. Nei saggi pubblicati cercavo di continuare le conversazioni che per la prima volta, con tale naturalezza, avevo svolto a Venezia, Firenze, Roma; conversazioni con i libri nello studio di Nicola Chiaromonte; conversazioni con i paesaggi e i monumenti dell’Italia, con i quadri italiani. Mi fu dato di rivisitare l’Italia e Roma; la casa di via Ofanto divenne per me una casa familiare; la conversazione continuava, Miriam a volte telefonava scherzosamente a Varsavia chiedendo dove si trovasse un certo volume, nella biblioteca di via Ofanto; sosteneva che conoscevo quella raccolta di libri meglio di lei. Nello studiolo di via Ofanto scrissi “Le due concezioni della libertà”, saggio basato sul lavoro di Isaiah Berlin, trovato nella biblioteca di Nicola Chiaromonte. In esso presentavo la problematica della libertà dei cittadini, dei confini del potere statale, così vicina a Chiaromonte e così attuale. Sempre lì fu concepito il saggio “Vita activa”, sul pensiero di Hannah Arendt, basato sul suo libro The Human Condition, letto nello studio di via Ofanto. Miriam Chiaromonte mi mise a disposizione la corrispondenza di Nicola e Andrea Caffi, l’umanista italo-russo, cosmopolita nella più alta accezione di questa parola e, nel contempo, legato intimamente con diverse patrie (lo associai immediatamente a Jerzy Stempowski). Da Miriam ho ricevuto anche il volume dei saggi di Caffi, A Critique of Violence (l’edizione italiana era intitolata Critica della violenza), con l’introduzione di Nicola Chiaromonte. Ha detto di Caffi: “Il migliore, il più saggio, il più giusto uomo che mi sia stato dato di incontrare”. L’introduzione a questo volume mi è sempre stata particolarmente cara. Lì Chiaromonte si svela, mostra le sue scelte. In maniera simile recepisco il suo ricordo di Albert Camus; e anche il suo testo Il gesuita, metà racconto, metà confessione autobiografica. Il testo su Caffi lo scrissi a Varsavia. Presentavo il suo rapporto con il problema della libertà, della sopraffazione, sopraffazione a opera del potere. Nella biblioteca di via Ofanto avevo sotto mano gli annali di “Tempo presente”. Leggevo questa eccellente rivista di ampi orizzonti. Non è invecchiata col passare del tempo. All’epoca Miriam lavorava all’edizione dei testi sparsi di Chiaromonte. Ho potuto conoscerli, trovandovi impressioni anche mie. Vennero poi pubblicati gli Scritti politici e civili (1976). Con mia gioia vi comparvero, tra gli altri, i saggi “Sul fascismo”, Il gesuita e Andrea Caffi. Negli Scritti sul teatro (1976) particolarmente indovinato mi parve l’accostamento di Cechov e Pirandello; poi Silenzio e parole (1978), testi filosofici e letterari, tra cui il ricordo di Albert Camus.
Si era sempre più distaccato dalla politica, ma non cessava -per usare un’espressione di Thomas Mann- di guardarla negli occhi. Nel novembre del 1970 in una lettera scriveva: “Qui la situazione politica… beh, inutile insistere: la disgregazione continua, e continuerà chissà per quanto… Io cerco di non pensare alle cose italiane altro che la mattina, leggendo i giornali. Ma del resto, le cose del mondo non vanno molto meglio. Solo che l’Italia è ridiventata il “bordello” dantesco (ma quanto meno vivo e ricco di caratteri).
Gino Bianco
In questi libri potevo ritornare ai testi di Chiaromonte, che mi divennero cari e che mi aiutarono nel dialogo con il mondo. Tuttavia, avevo l’impressione che Chiaromonte mi parlasse da una certa distanza. Nel periodo dell’azione legale di Solidarnosc, dal 1980 alla fine dell’autunno 1981, i fumi ideologici scomparvero, le parole riconquistarono il loro significato, il loro peso. Le conversazioni in Polonia diventavano più facili, ma bisognava anche avere qualcosa da dire. In quel periodo fui costretto a rivedere a fondo la mia tattica di scrittura; dovevo ritrovare un linguaggio che mi permettesse di avvicinarmi alle problematiche per me importanti. Perdeva il suo fascino l’alludere al fatto che un po’ di libertà in più fa bene allo sviluppo sociale. Il 13 dicembre del 1981 la sopraffazione di Solidarnosc acuì solamente questa situazione. In quel momento ero negli Stati Uniti. Il mio cognome apparve sull’unico elenco ufficiale degli attivisti imprigionati. Questo errore della polizia politica mi facilitò la pubblica definizione della mia posizione. Rimasi in Occidente. Mi installai a Parigi. Poco dopo iniziarono le pubblicazioni di “Zeszyty Literackie” (“Quaderni Letterari”), fondati e pubblicati da Barbara Torunczyk. Con maggior forza sentivo il bisogno di trovare il linguaggio con cui riprendere il contatto con la realtà, cercare di definirla, conversare con il mondo, toccare il mondo per rivitalizzarlo in me, rivitalizzare me stesso. Ero, come tanti altri, in uno stato di shock, di paralisi interiore, avevo la sensazione che ciò che leggevo, che ascoltavo, gli articoli, i libri, le discussioni, fossero solo un fruscio della carta, solo discarica di parole, a volte anche bellissime, a volte documento essenziale del tempo, ma morte. Lentamente uscivo da questo stato. Il sostegno arrivava da fonti simili a quelle di un tempo: nello sprazzo di realtà del verso di Milosz, nella rilettura di un frammento di diario di Gombrowicz, nell’annotazione -con parole o pennino- di Jozef Czapski. Molto lentamente iniziavo ad aprire gli occhi, vedere i quadri, parlare con le persone. Avevo bisogno di aiuto per rivitalizzare la voce, lo sguardo. L’arrivo a Parigi di Krzysztof Jung rappresentò un momento di questo rallentamento interiore e, nel contempo, di concentrazione, di “distaccamento dal nemico” (come lo definisco nel mio linguaggio personale) per rivolgermi verso me stesso e il mondo.
Questo del limite era un concetto molto importante nel pensiero di Nicola. Che vuol dire? Fra tante cose, anche questa: che un’azione non si qualifica soltanto per la sua natura, ma per la sua misura. Fare dieci è una cosa, fare venti della stessa cosa, è un’altra. Per Nicola, voler ottenere un mutamento attraverso la conquista immediata e integrale del potere era una cosa sciocca, perché nel perseguire il potere, si snatura e sorpassa il limite: si crea una contraddizione fra ciò che si vuole e ciò che si ha imponendolo. Sempre a proposito di limite, gli piaceva raccontare questa storiella. In Cina, un contadino aveva un piccolo podere. Non c’era acqua e lui doveva ogni giorno, con grande fatica, andarla a prendere lontano, per la casa e per i campi. Un altro cinese, contadino come lui, gli dice: “Ma scusa, perché non fai come me?”. E gli fa vedere tutto un sistema di ruote, carrucole, funi, canaletti di bambù, eccetera, per estrarre l’acqua da un pozzo e farla arrivare dove serve senza rompersi la schiena. Il primo cinese guarda tutto, poi dice: “Non lo voglio”. “Perché?”. “Perché così l’acqua diventerebbe furba”. È una storiella tipica di Nicola. Il sospetto di una tecnologia che non tenga conto dei ritmi della natura. Lui diceva sempre che nel mondo moderno non c’è possibile salvezza se si accetta il progresso tecnologico per principio, senza riserve, e si applica tutto ciò che esso può suggerire.
Mary McCarthy
Il mio amico pittore aveva in se stesso, nei momenti buoni, il potere di illuminare il mondo. Con questo stato d’animo partii alla fine di dicembre 1984 per Roma insieme a Krzysztof, anche lui invitato da Miriam Chiaromonte. Tornai in via Ofanto. Con gioia facevo conoscere la città eterna al giovane pittore che la vedeva per la prima volta con i suoi occhi intensi. Giusto in quel periodo era tornato, dopo un periodo di attività estremamente moderna, alle classiche forme di espressione plastica. Sotto l’influenza delle opere di Jozef Czapski dipinse una serie di magnifici paesaggi (li portò a Parigi da Varsavia). Anche lui aveva bisogno di un rinnovamento e rafforzamento del linguaggio che gli permettesse un dialogo creativo con il mondo. Tuttavia, durante questo soggiorno fui sempre combattuto tra la voglia di passeggiate con Krzysztof per Roma e la tentazione, non meno forte, di chiudermi nello studio di Nicola Chiaromonte e concentrarmi sui suoi testi. Miriam, infatti, mi fece vedere allora le sue annotazioni private. Dunque, ogni mattina Nicola Chiaromonte sedeva nello studio a lavorare; iniziava la giornata per lo più chinandosi sopra gli originali dei tragici e filosofi greci. Più tardi dirigeva lo sguardo verso il trambusto della modernità, verso i fenomeni letterari contemporanei, dispute politiche, analisi sociali. Le riflessioni le annotava nelle agende. Miriam aveva iniziato a decifrarle e trascriverle. Aveva dei dubbi sull’opportunità di renderle note, perché si trattava di annotazioni troppo intime, che forse non avrebbero trovato dei lettori. Io la incoraggiavo calorosamente a continuare il lavoro. Potevo rassicurarla che quelle note avevano già trovato almeno un lettore appassionato. Nelle note mi entusiasmò la voce intima che poneva le domande sulle fondamentali questioni esistenziali, libera dal servilismo ufficiale, priva dell’apoditticità dottrinale dei sistemi filosofici, della critica letteraria o artistica. Questo stile, questo svolgersi della conversazione, questo intendere il mondo, rispondevano al mio bisogno. Sentii una voce seria e allo stesso tempo senza arrossamenti. Di solito presso gli aforisti, anche i più grandi, disturba la voglia di ricondurre il tutto a un’unica formula illuminante, evidente sforzo di seduzione del lettore. Nietzsche ha scritto che il suo ideale è di dire in poche frasi ciò che per gli altri richiede un intero libro, e che gli altri in un libro intero non dicono. Nelle sue note Chiaromonte mi parve più spogliato e più ruvido; lì colsi la più magnifica realizzazione della sua scrittura: non vuole sedurre il lettore e non lo sottovaluta, parla delle proprie reazioni ai libri, agli uomini, ai fenomeni, tratta se stesso con serietà e umiltà. Allora, a Roma, nel 1985, colsi nelle sue note lo spirito di apprendimento, di colui che pone delle domande ad altri uomini, ad altri tempi e a se stesso, ed è capace di imparare; grazie a ciò a volte avviene un tocco vitale della realtà, il linguaggio rinasce e si rinforza, la conversazione diventa possibile. Durante quello stesso soggiorno a Roma lessi il nuovo volume di poesie di Czeslaw Milosz. Un volume di poesie? Milosz, come egli stesso scriveva, cercava “una forma più capiente”, che andasse oltre le schematiche differenziazioni del genere. Rimasi colpito dagli improvvisi bagliori della realtà colti nel volume di Milosz. E sentii una straordinaria affinità fra le ricerche formali di Milosz e Chiaromonte. Entrambi cercavano di liberarsi dai busti che falsificano la voce, che non permettono di parlare liberamente del mondo, neanche del mondo interiore. Con coraggio schivavano le trappole della letteratura pura, troppo letteraria. Nei taccuini di Chiaromonte, come nelle poesie di Milosz, trovavo una letteratura ripulita, anche nelle forme, da ogni preziosità, una letteratura allo stato puro. La parola tendeva a cogliere l’uomo vivo, a liberarlo dai legami ideologici, da schemi filosofici, religiosi e artistici. Sentivo il bisogno di una letteratura del genere, che affrontasse con coraggio la realtà, riuscendo a coglierne i tanti elementi. Sì, il Chiaromonte che riemergeva dalle note, lette da me nell’inverno del 1985 in via Ofanto, e più avanti a Parigi, si inseriva a pieno titolo nell’elenco dei miei “scrittori briganti”. Mi aiutò a porre fine al silenzio soffocante. Scrissi un saggio su queste note, pubblicato nella primavera del 1986, da “Zeszyty Literackie”. Fu uno dei primi testi di una lunga serie, durata alcuni lustri, intitolata “Lettere da Parigi”. Scelsi gli appunti di Chiaromonte che sentivo a me più vicini, più corrispondenti ai miei bisogni, che mi parlavano in modo più forte e più semplice. Quegli appunti sono stati anche da me tradotti e pubblicati su “Zeszyty Literackie”. Ho inserito non solo il mio testo, ma anche frammenti scelti dagli appunti, nel volume Lo stemma d’esilio, perché sentivo che mi appartenevano sia per la loro forma, che per il contenuto. Si trattava della prima pubblicazione degli appunti e di un loro commento; questa volta nelle pagine di un trimestrale di emigrazione polacca a Parigi. Credo che a Nicola Chiaromonte sarebbe piaciuta una coincidenza del genere. Ritenevo però che questi testi straordinari dovessero essere pubblicati in primo luogo in Italia; aiutavo Miriam nella scelta degli appunti, la esortavo a mandarli agli editori. Pensavo che un’opera di tale semplicità, forza e originalità sarebbe stata accolta con entusiasmo. Benché una parte del mio saggio venisse pubblicata nel 1987 sulle pagine di una nuova edizione di “Tempo presente” e fosse la prima informazione in lingua italiana sull’esistenza delle note di Chiaromonte, la via verso le librerie d’Italia si rivelò assai più difficile di quanto mi aspettassi. Alcune case editrici, tra cui Adelphi, che mi pareva la più adatta alla problematica, alla pubblicazione del libro diedero addirittura risposte negative. Fu solo il Mulino a prestare un interesse più grande e a pubblicare nel 1992 un volume di saggi dal titolo Il tarlo della coscienza, curato da Miriam Chiaromonte, ripreso dal volume americano The Worm of Consciousness and Other Essays, del 1976. Nel 1993 venne riproposto Credere e non credere, e finalmente, nel 1995, venne pubblicato Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, una scelta degli appunti a cura di Miriam Chiaromonte, con la mia prefazione. È impressionante la lentezza con cui questi taccuini sono arrivati agli editori e ai lettori. Non dubito che la loro importanza sarà apprezzata, ma questo momento sembra ancora lontano, e molto rimane ancora da fare. Il mio saggio e la prima scelta dei taccuini, apparsi su “Zeszyty Literackie”, furono pubblicati in francese dalla rivista “Légendes” nel 1999; in olandese da “Nexus” nel 2000; nel 2001 la casa editrice polacca Czytelnik pubblicò, a cura e nella traduzione di Stanislaw Kasprzysiak, con la mia prefazione, Che cosa rimane; una versione più ampia in francese, con la mia introduzione, è annunciata dalla casa editrice Editions du Rocher, per l’anno 2003. Il volume pubblicato in italiano dal Mulino non è altro che una scelta degli appunti e rappresenta una buona introduzione, ma la pubblicazione dell’opera di Chiaromonte dovrebbe andare avanti. Molti appunti a me cari non hanno trovato il posto nell’edizione italiana. Mi rendo conto di quanto rimanga da fare. Sono tornato ripetutamente in via Ofanto per leggere i taccuini, nonché la sua corrispondenza, messa a mia disposizione da Miriam. Anche le sue lettere mi hanno molto colpito, rappresentano una testimonianza importante della realtà sociale e della vita interiore; impressiona la loro varietà. Chiaromonte dialogava con una grande abilità, cercava di adeguarsi al suo interlocutore, rimanendo se stesso. Scriveva in tre lingue; le lettere a Caffi, il più delle volte in francese, talvolta in italiano, riguardano temi socio-filosofici. Quelle a Mary McCarthy, in inglese, di taglio aneddotico, tracciano un quadro vivace dell’ambiente degli intellettuali americani e occidentali nel dopoguerra. Ma il mio interesse è stato suscitato da un altro blocco di lettere, molto più concise, personali. Mi sembravano simili agli appunti nei diari. Miriam mi ha fatto vedere questi testi nell’inverno 1984-85, a Roma. Nicola Chiaromonte negli ultimi anni della sua vita teneva un carteggio molto regolare e intenso con una certa monaca; si scrivevano diverse volte alla settimana (la monaca aveva ricevuto un permesso speciale dai suoi superiori per questa corrispondenza spirituale). La lingua era quella italiana; la monaca abitava negli Stati Uniti, era nata in Germania, e padroneggiava sia il tedesco che l’inglese, l’italiano e il francese. Traduceva in inglese le poesie dalle altre lingue (Yves Bonnefoy, René Char, Georg Trakl, Johannes Bobrowski, Eugenio Montale, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti). Alcuni frammenti delle lettere di Chiaromonte mi hanno incantato perché parlano di una realtà che riusciamo a cogliere nei momenti di tensione particolare, quando ci raccogliamo su noi stessi, consci dei nostri limiti, della nostra ignoranza. Allora ci poniamo domande semplici, e con onestà, concentrazione, cerchiamo una risposta: cos’è la felicità? Quali regole devono presiedere, governare la comunità degli uomini? Chiaromonte in quelle lettere talvolta spiegava le idee annotate sui suoi taccuini; ecco perché leggevo questi frammenti di lettere con viva emozione; sentivo la sua voce che parlava di cose anche per me importanti, al di sopra di ogni schema ideologico, politico o filosofico. L’archivio di Chiaromonte, messo magnificamente in ordine da Miriam, mi pareva uno dei luoghi segreti della coscienza occidentale. Appropriarsi di questi tesori avrebbe dovuto essere il sogno degli istituti di ricerca e delle università italiane. Ma non fu così: l’interessamento rimase scarso. Raccontai di questo archivio a Vincent Giroud, direttore del dipartimento di manoscritti contemporanei della ricchissima raccolta della Beinecke Library, depositaria dei cimeli dell’Università di Yale, dove si trova una magnifica collezione degli “scrittori briganti”: Milosz, Wat, Jelenski, Gombrowicz. Nel 1992, la Beinecke Library acquistò anche l’archivio di Chiaromonte; in esso attualmente si trovano i taccuini e le lettere. Nell’ottobre del 1998 mi accingevo a partire per la Beinecke Library, per continuare gli studi dei taccuini; ma, ahimè, ripeto spesso a me stesso la frase di una poesia inglese “the best laid schemes of mice and men…”: la stessa sorte spetta ai piani meglio concepiti di topi e uomini. Il giorno prima della mia partenza da Parigi per gli Stati Uniti morì improvvisamente a Varsavia Krzysztof Jung. Ancora una volta rimasi senza voce, come dietro una parete di vetro, rigido, muto. Con questo stato d’animo partii con un certo ritardo per la Beinecke Library e ancora una volta gli “scrittori briganti” vennero in mio aiuto. Nella magnifica bacheca di alabastro, quale è la Beinecke Library, in un monumento dell’architettura del XX secolo, mi chinai sulle lettere di Jelenski, Czapski, Herbert, sui manoscritti di Milosz e di Wat, sui frammenti di diario di Gombrowicz. Mi parlavano in modo comprensibile e giusto di cose e uomini a me vicini. Approfondii la lettura dei taccuini anteriori, a me sconosciuti; quelli trascritti in parte da Miriam vanno dal 1955 al 1971. Gli appunti da me letti a Beinecke risalgono al 1923; li ha scritti un diciottenne su un blocco di carta intestata al “Dott. Chiaromonte Rocco, Medico Chirurgo, Specialista malattie interne, via Po, 33, Roma”. È l’agenda del padre, medico; abitavano vicinissimi a via Ofanto (in questa famiglia da alcune generazioni c’era un medico e un prete, così fu anche nella generazione del padre di Nicola e nella sua: il più piccolo dei fratelli, Franco, è medico, il secondo, Mauro, è diventato prete -di lui parla il saggio Il gesuita). La scritta sul retro della prima pagina: “Nulla dies sine linea”. La prima breve annotazione è del 30 giugno 1923 e riguarda il problema “Mutabilità” (cambiamenti, mutamenti -il mio problema!). Subito dopo, 3 agosto 1923, su Don Chisciotte: “Austero cavaliere, tu non mi fai ridere e neppure sorridere”. Chiaromonte trattava il cavaliere dalla faccia triste con assoluta serietà, non rideva di lui, né sorrideva con ironia o sdegno. Nel quaderno successivo, 9 ottobre 1924, annotazione: “Lettura di Schopenhauer”; 2 dicembre 1924: “La morte di Giacomo Puccini”. Le citazioni dai versi (in originale): Keats, Holderlin, Racine, spesso compare Goethe. Ho trovato la risposta di Mefistofele a Faust che chiede: “Chi sei?”: “Rimarrai colui che sei, pure ti addobbassi in parrucche di mille boccoli, pure vestissi le scarpe con tacco altissimo, rimarrai colui che sei”. E ho trovato le parole per me più preziose, un’altra risposta a questa domanda fondamentale e nel contempo la promessa di salvezza di Faust: “Wer immer strebend sich bemüht, Den können wir erlösen”, “Colui che costantemente si adopera per una causa, troverà la salvezza”. Bisogna ripetersi queste parole nei momenti di prova e in altri momenti. Note interessanti sui giorni della disfatta francese, nel 1940; sulla partenza da Casablanca, 26 luglio ’41, per gli Stati Uniti, a bordo della “Nyassa”; sulle conversazioni con un diplomatico polacco. Appunti a New York sulle letture filosofiche: Descartes, Rozanov, Platone, Kierkegaard, Sartre. Due appunti mi parlano come se fossero rivolti personalmente a me, al di là degli anni. Il primo, precoce, dal quaderno febbraio-marzo 1927, in italiano. “E’ morto un uomo: un uomo è stato cancellato. Ma come si può cancellare un volto, delle mani, delle ossa? Perché è sparito? Egli non era un fantasma, egli aveva un corpo che gli costava, un corpo che si stancava, che doveva dormire e svegliarsi, un corpo che faceva anche sangue. Chi lo ha cancellato? Perché è sparito? Oh, non è sparito. Un giorno egli è rimasto fermo, non s’è più saputo che farne ed è stato mandato via perché gli altri hanno pensato che ormai doveva bastare il suo nome e il diritto di piangere. Non è stato cancellato, ma per un pezzo non si saprà più niente di lui”. Non si sa di chi parli questo appunto, ma sentii questa voce limpidissima a Beinecke nell’ottobre del 1998; in quel momento avevo bisogno di sentire quelle parole. La seconda annotazione, in francese, risale all’inizio del soggiorno americano, fine 1941-inizio 1942, rappresenta una sorta di confessione della fede e voto alla memoria. “Io sono legato: A ciò che è avvenuto in Italia, in Spagna, in Francia - a tutta la vita, a tutte le vite distrutte, calpestate, umiliate. Annie - è il cuore. Andrea (il cammino dello spirito) - l’amicizia - la società. Due o tre momenti di estasi. Il paradiso dell’arte e della natura. Firenze. Il mare, i cavalli. La nostalgia ‘Pax et justitia oscultatae sunt’. E questa domanda: ‘sono davvero innamorato? È veramente questo?’ di fronte a ciò che capita”. (Annie è Annie Pohl, pittrice, prima moglie di Chiaromonte, morta di tisi in Francia, nel 1940; Andrea è Andrea Caffi, il mentore e il più caro amico di Chiaromonte, rimasto in Francia, a Toulouse, durante la guerra). Queste parole scritte nel momento della disfatta e della rinascita, questa dichiarazione di fedeltà nel momento del cambiamento, erano rivolte anch’esse a me, vi sentivo il completamento della prima nota sulla mutabilità, della prospettiva di individualità, già temprata nella disfatta, ma tuttora aperta al mondo, capace di meravigliarsi, di indignarsi, di amare e di porre amicizia: “Colui che costantemente si adopera per una causa, troverà l’assoluzione”. Nell’autunno 1998, a Beinecke, lessi anche la corrispondenza di Chiaromonte, e anche questa volta rimasi colpito dalla ricchezza del quadro che emergeva da queste lettere; quadro dell’epoca e quadro dell’uomo, sovrano, alla ricerca del proprio posto, della propria voce, ma capace di capire gli altri, capace di aiutarli nella loro battaglia con il richiamo della sorte e dell’epoca. Mi hanno incuriosito due lettere a Slawomir Mrozek, specie due frammenti del 1964; tra l’intellettuale e critico teatrale italiano e il drammaturgo polacco, più giovane di un quarto di secolo, nacque un forte legame di simpatia. Mrozek, all’epoca, decise di rimanere in Occidente; Chiaromonte condivide con lui l’esperienza di esiliato: “Posso dire che i miei anni d’esilio furono molto duri per tante ragioni, ma furono anche i più ‘vivi’ e fruttuosi della mia vita. Io cominciai l’esilio quando avevo ventinove anni e lo terminai quindici anni dopo. Il peggior momento non fu l’inizio, ma la fine, quando, cioè, dovetti decidere se tornare in patria o no: sto sempre un po’ fuori d’Italia per una quantità di aspetti della vita, da quello intellettuale a quello delle abitudini e dei costumi. E forse questo è un tempo in cui non si può essere in patria in nessun luogo: si è sempre ‘sradicati’ (uprooted), dovunque si viva” (5 marzo 1964). Il secondo frammento riguarda il rapporto di Chiaromonte con i suoi amici polacchi, ma anche qualcosa di più elementare, la sua visione della personalità, vivace, rivitalizzante dei contatti tra gli uomini, il senso della conversazione: “Del resto, è un fatto che fra me e i miei conoscenti polacchi ci sia un rapporto un po’ speciale: voglio dire che non c’è quella distanza fatta di politesse, ma anche di sicurezza di non potersi veramente intendere, che si stabilisce fra me e i miei conoscenti francesi, per esempio. [...] Ed ecco, a me dispiace molto di non abitare nella stessa città dove abita lei perché ho il sentimento che con lei la comunicazione è utile. E così anche con Gustavo Herling, a cui voglio molto bene: mi fa piacere che lei abbia trovato l’incontro con lui ‘ravvivante’. Herling è un uomo solido. Mentre di solito non si incontrano che zombies. Lei sa che cosa sono gli zombies: sono, ad Haiti, quegli individui che vivono posseduti da uno ‘spirito’ dei riti ‘voodoo’, e non esistono dunque mai di persona” (2 novembre 1964).
... Lo Stato impresario di teatro e di cinema? “Qui lo Stato non fa altro che ripetere una situazione corporativa, che è la stessa creata a suo tempo dal regime fascista e che si perpetua nel clima di mafia totale in cui viviamo: una perpetua connivenza di bande politiche, sociali, artistiche, letterarie. La maggioranza degli intellettuali italiani non sono altro che la reincarnazione in chiave mafiosa dei letterati di corte del Seicento”. Oggi, invece, gli stessi che un tempo ne censuravano le idee e le allergie estetiche e morali, tendono non solo a perdonargli la nettezza di tanto congenito anticonformismo. Tendono perfino a dimenticare un fatto che, negli anni Cinquanta e Sessanta, doveva apparire il più grave di tutti. Il fatto, cioè, che quella sfilza di giudizi negativi... anziché provenire dalla bocca di un reazionario blaterante, provenisse dalla mente e dallo spirito di un antifascista puro, un libertario coltissimo, un combattente spericolato che aveva partecipato alla guerra di Spagna sulle bare volanti della squadriglia Malraux. L’antifascismo, gli esili, le battaglie civili e militari di Chiaromonte in Spagna e in Francia erano adamantini... Il suo travagliato itinerario di pensatore peripatetico, di militante politico, di cittadino del mondo, così simile per tanti aspetti a quello dell’amico e maestro Andrea Caffi, era stato interamente e limpidamente percorso su strade di sinistra tutte lontane dallo stalinismo...
Enzo Bettiza
Chiaromonte era una guida delle anime non aggressiva, non dogmatica; gli rese un bellissimo omaggio Mary McCarthy, in una lettera del 1968. Nel confidargli il progetto di un viaggio ad Hanoi, ne aveva già parlato in segreto con Kot Jelenski e Nathalie Sarraute, improvvisamente aggiunse: “Nicola, da tempo volevo dirti -e questa mi sembra una buona occasione- che vederti a Cape Cod nell’estate del ’45 ha rappresentato una svolta nella mia vita. Infatti sono diventata una persona diversa, anche se tu non lo hai notato, del resto io stessa l’ho scoperto solo in seguito, guardandomi indietro. Questo mi ha convinto -qualcosa che tu stesso non credi- che il cambiamento è possibile, intendo il cambiamento interiore naturalmente”. Chiaromonte ha cambiato la sua vita, come ha cambiato la vita di tante persone. Si può solo ripetere: non mi fai ridere e neppure sorridere. Con attenzione -e senza isterismi- guardava il mondo, se stesso, noi, conversava. Questa conversazione non è finita. Abbiamo bisogno di nuove edizioni dei suoi testi, di nuove letture, di nuovi incontri.
Io sono legato:
A ciò che è avvenuto in Italia, in Spagna, in Francia -
a tutta la vita, a tutte le vite distrutte, calpestate, umiliate.
Annie - è il cuore.
Andrea (il cammino dello spirito) - l’amicizia - la società.
Due o tre momenti di estasi.
Il paradiso dell’arte e della natura.
Firenze.
Il mare, i cavalli.
La nostalgia ‘Pax et justitia oscultatae sunt’
Nicola Chiaromonte