“I periodi dei ‘disgeli’ sovietici -gli anni Venti e gli anni Sessanta- furono accompagnati dal risveglio nazionale. Così pure, e in modo lampante, il periodo dopo la caduta del comunismo e dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica. […] Diciamolo pure. Sotto l’allarme sincero e artificiale di Elstsin sostenuto dall’esercito si nasconde la verità dell’ex impero aspirante alla sua ricomposizione. Mosca è già riuscita ad attirare la Bielorussia sotto la presidenza del compiacente presidente Lukascenko. Sono, per ora, i primi passi. Il vero bersaglio è l’Ucraina. Se l’Ucraina non sarà sufficientemente sostenuta dall’Occidente, le difficoltà economiche la costringeranno ad avvicinarsi alla Russia, a scapito della sua importantissima indipendenza nazionale”.
Sono righe tratte da un articolo di Gustaw Herling uscito su “La Stampa” del 28 giugno 1995 con titolo eloquente: “La cerniera dell’Europa”. Non saprei trovare profezia più lucida di quanto sta accadendo negli ultimi mesi dopo l’aggressione di Putin. L’articolo è soltanto uno dei pezzi forti di una vasta raccolta di tutti gli scritti usciti in lingua italiana. Una coraggiosa operazione editoriale, che fa coppia con il Meridiano uscito nel 2019. Non è quell’articolo del 1995 la sola testimonianza di un saggista lungimirante in politica internazionale. Sono pagine, quelle dell’ultimo periodo (Herling morì a Napoli nel 2000), che suonano amare se rilette oggi, in pieno conflitto. Sono pagine che meriterebbero un’edizione tascabile, più maneggevole di questa opus magnum e più adatta al lettore comune per districare il groviglio ucraino. Il taccuino quotidiano degli interventi di politica internazionale dimostra una lucidità fuori del comune.
I due tomi raccolgono articoli usciti per varie riviste e quotidiani: dal “Mondo” di Pannunzio a “Tempo presente” di Chiaromonte al “Corriere” di Spadolini. Infine, il “Giornale” con cui Herling ruppe i rapporti nel maggio 1982 in polemica con l’atteggiamento assunto dal quotidiano di Montanelli nei confronti di Jaruzelski. Herling non era un collaboratore facile e addomesticabile. “La Stampa” di Torino e “Il Mattino” ospitarono suoi articoli nell’ultimo decennio di vita, i più amari di tutti, segnati anche questi da dolorose polemiche, a partire da quell’articolo su lager e gulag “gemelli del terrore”, scritto per contestare una sbrigativa frase di Primo Levi (23 agosto 1997, pp. 1242-1243). Parlando ai giovani, l’autore di Se questo è un uomo aveva sostenuto che mentre i lager nazisti furono esclusivamente uno strumento di sterminio, il gulag aveva come obiettivo soltanto lo sfruttamento del lavoro forzato. Herling, che non aveva avuto difficoltà a includere Se questo è un uomo fra i classici del Novecento ed era stato fra i pochi a tesserne l’elogio quando assai pochi italianisti manifestavano uguale entusiasmo, non riusciva a spiegarsi una tale ingenuità nel leggere Salamov e nel non comprendere il denominatore comune che unisce le due forme di totalitarismo. Un episodio questo significativo, che incrina l’immagine iconica di Levi costruita nell’ultimo periodo. Qualche volta anche Primo Levi dormitat. Senza dire che La casa dei morti di Dostoewski era stato un classico di riferimento per lui, come lo fu per Herling nella stesura di Un mondo a parte.
L’interesse del volume non riguarda tuttavia soltanto l’Europa orientale, la Polonia e la cultura del dissenso, ma anche questioni interne di cultura italiana: di storia dell’Italia repubblicana, di letteratura, di cinema, di giornalismo. A suo modo Herling era un “dispatriato”, per adoperare il vocabolo caro a Luigi Meneghello. Rilevante è pure il tema della lingua; leggere questi scritti in successione consente di comprendere con quanta rapidità fosse andata avanti la sua italianizzazione senza lasciare traccia di traduzione riflessa. Notevole il frequente autoparagonarsi al dispatriato “maestro di gerundi” James Joyce, i cui scritti italiani sono spesso un modello antagonista rispetto alla prosa classica di Benedetto Croce. E quanto acume si legge nei frequenti giudizi di critica letteraria, per esempio su Alberto Moravia, lodato per i reportages di viaggio, ma stroncato per il suo “realismo social-erotico” nemmeno lontanamente paragonabile a Lawrence (I, p. 211). Interessante infine l’elogio della provincia italiana, qua ...[continua]
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