Rispondendo all’invito dei miei amici del mensile Una Città di Forlì, ai quali sono unito da numerosi legami di collaborazione, scrivo due parole per presentare un libro che ho trovato affascinante, non solo per il suo argomento, che non manca assolutamente d’interesse dal momento che si tratta delle condizioni nelle quali la stragrande maggioranza degli arabi palestinesi, che abitavano nel paese divenuto poi Israele nelle sue frontiere del 1967, hanno lasciato le città ed i paesi che appartenevano loro da secoli. Per gli autori palestinesi si trattò dell’Espulsione, da cui deriva il titolo che il mio amico Elias Sanbar ha dato al racconto, solidamente documentato1, di questi eventi. Da parte israeliana, esiste una leggenda, sulla quale tornerò più avanti, che vuole che siano stati gli arabi a partire, seguendo gli ordini dei loro capi per lasciare il campo libero ai combattenti il cui sogno era la distruzione della colonizzazione sionista. Fortunatamente esistono anche i libri di storia, nel senso che questo termine ha per gli storici di mestiere. L’opera fondamentale, pubblicata prima in inglese, nel 1987 [The Birth of the Palestinian Refugee problem, 1947-1949, Cambridge], successivamente in ebraico, è quella di Benny Morris, ora tradotta [dall’edizione aggiornata, 2004, ndc] anche in italiano con il titolo Esilio. Israele e l’esodo palestinese (Rizzoli 2005).
Naturalmente, non ci si può aspettare che la verità degli uni sia identica a quella degli altri; non lo si può fare e, in tutta onestà, non lo si deve fare perché si tratta, in un caso come nell’altro, di qualcosa che non è di dominio esclusivo dell’interpretazione degli archivi, ma anche del sentimento nazionale nel suo senso più profondo ed esistenziale. Per gli israeliani, il 1948-1949 è l’epoca della Guerra di Indipendenza; per i palestinesi è il tempo della catastrofe, la Naqba. Questi punti di vista probabilmente non sono destinati ad essere eterni, ma rimane il fatto che i palestinesi da maggioranza sono divenuti minoranza, ed è vero l’opposto per gli israeliani che, conquistata l’indipendenza e la sovranità, si sono aperti ad un’immigrazione ebraica massiccia, mentre ai palestinesi era vietato il ritorno in patria.
Il libro che ho l’onore di presentare al pubblico non è un’opera sui fatti in sé, ma sulla loro memoria, sulla loro eco, in un certo senso, come viene evocata da S. Yizhar, considerato uno dei più grandi scrittori israeliani, destinatario, come vedremo, di tutti i riconoscimenti possibili ed immaginabili. Questo libro è diventato un classico, anche nel senso etimologico del termine; intendo dire che attualmente fa parte dei programmi delle ultime classi dei licei e delle facoltà di lettere. In ebraico si chiama Khirbet Khiza, vale a dire Le rovine di Khiza. Non leggendo l’ebraico ho dovuto leggerlo nell’edizione italiana, il cui titolo è La rabbia del vento2.
Non si tratta di un libro recente, visto che è stato pubblicato nel settembre del 1949 e scritto nel maggio dello stesso anno, solo un anno dopo la proclamazione dell’indipendenza. Si tratta di un libro costruito come un romanzo d’iniziazione, in cui un battaglione della giovane armata israeliana marcia verso un villaggio. La descrizione poetica dei luoghi, del suolo, della vegetazione riveste un ruolo importante. Il villaggio verrà distrutto, i suoi abitanti, uomini, donne e bambini verranno caricati su camion che li condurranno alla frontiera. Lo spazio sarà destinato alla colonizzazione.
Il paradosso è che non si individuerà il nome di questo villaggio su nessuna cartina della Palestina, esso si trova lì come a rappresentare tutti i villaggi distrutti nel corso delle guerre arabo-israeliane e del processo di colonizzazione, con o senza massacro degli abitanti. L’esempio di Deir Yassin, i cui abitanti furono uccisi da un’unità dell’Irgun e dal gruppo Stern nell’aprile del 1948, è rimasto emblematico, ma ricercarne una traccia oggi sarebbe vano. Durante il mio primo viaggio in Israele, chiesi a André Scemama, corrispondente di “Le Monde” a Tel Aviv, dove si trovasse questo villaggio che avevano spesso paragonato a Oradour-sur-Glane. Mi rispose: “Vicino al suo hotel”, vale a dire vicino a Ein Karem dove nacque Giovanni Battista. Naturalmente non ne rimaneva la minima traccia.
Non so come esprimere il mio apprezzamento per il fatto che il racconto di S. Yizhar (il cui vero nome è Yizhar Smilansky) sia diventato un classico. Alla fine del libro, si sentono partire i tre camion che evacuano la popolazione palestinese; un forte vento si leva nel cielo tranquillo; i soldati parlano di tutto tranne che di quello che è appena successo. La nota finale è quella dell’indifferenza degli uomini e forse anche di Dio. Ma la sua lettura provoca l’indignazione o l’indifferenza degli studenti? Non impone l’idea così spesso enunciata: o loro o noi?
Vorrei rievocare un mio ricordo. Nella primavera del 1990 feci un breve viaggio in Israele, durante il quale un amico e collega israeliano, Irad Malkin, mi portò a vedere un film, Dietro le sbarre. La trama si svolgeva in una prigione dove convivevano, più o meno bene, detenuti ebrei ed arabi. Venne organizzato uno sciopero della fame contro le condizioni di detenzione che finì col riunire le due categorie di detenuti. La proiezione a cui assistevo era organizzata dagli studenti degli ultimi anni del liceo. Irad Malkin mi traduceva le domande che venivano fatte e fra quelle una mi colpì particolarmente: come spiegare che il personaggio più bello e simpatico del film era un detenuto arabo?
Molti avvenimenti sono accaduti da allora: gli accordi di Oslo, il ribaltamento della maggioranza in Israele e nei Territori occupati, l’evacuazione di Gaza, il progetto non ancora realizzato di evacuare alcune colonie della Cisgiordania, senza dimenticare l’omicidio di Rabin e la morte di Yasser Arafat. Sono tutti avvenimenti noti ai lettori di questo libro e, piuttosto che fare commenti al riguardo, preferisco presentare i due testi che compongono questo volume.
Sono senza dubbio molto diversi l’uno dall’altro. Il testo di Ephraim Kleiman è l’opera di un economista ed è stato pubblicato nella forma in cui mi è stato presentato3. Si tratta di una testimonianza piuttosto che di un’analisi storica, ma una testimonianza abbastanza significativa da indurre l’altra autrice, Anita Shapira, a riferirsi ad essa in epigrafe alla sua analisi storica. Questo testo è stato pubblicato nel 1978, vale a dire l’anno stesso in cui il racconto di S. Yizhar ha iniziato a sollevare vespai per vari motivi, dei quali parlerò più avanti. Con la storia di Khirbet Khiza parliamo di un’eccezione? Kleiman ne dubita. All’inizio del suo racconto ci dice: “Tanti, in questo paese, hanno confinato in qualche angolo recondito della propria memoria la storia del loro privato Khirbet Khiza. Dubito che i loro ricordi siano molto diversi dai miei”.
Questa testimonianza ci rimanda alla fine dell’inverno, o all’inizio della primavera del 1949, quindi dopo la Guerra di Indi­pendenza. L’autore era, all’epoca, un soldato di un’unità che ebbe il compito di espellere un gruppo di beduini del Negev, alla frontiera della Striscia di Gaza. Si tratta di un testo singolare, per la sua miscela, difficilmente scomponibile, di franchezza (a volte al limite del cinismo), indignazione (viene fatto un paragone con l’affare Dreyfus) e rammarico. Alcuni passaggi sono impressionanti: ad esempio, viene citato un membro della Knesset che, sentendo uno dei colleghi afflitto perché i mobili di una casa araba erano stati distrutti, dice: “Guarda che non erano mobili di mogano!”.
Kleiman è allo stesso tempo un sincero testimone del dolore altrui e un ideologo persuaso di essere nel giusto accusando il nemico di aggredire un paese che reputa suo, ma che anche altri considerano proprio, fra l’altro con molti buoni motivi.
Il paragone con l’affare Dreyfus si spinge molto lontano, perché Kleiman spiega che S. Yizhar, nella sua protesta, può appoggiarsi all’esempio di Emile Zola e del tenente-colonnello Picquart che, sebbene non fossero ebrei, presero con coraggio e passione le parti del capitano ingiustamente sospettato di essere un agente tedesco.
La Guerra di Indipendenza è stata l’“ora più gioiosa” o l“ora più tragica” della generazione che la visse? Forse, l’una e l’altra contemporaneamente. Conosco alcuni israeliani a cui l’esodo degli albanesi, durante la guerra in Kosovo, ha ricordato, immediatamente, quello che era successo nel 1948 con la partenza massiccia delle popolazioni arabe. Ephraim Kleiman cita il poeta ebreo Alterman, secondo il quale il sangue, anche se giustamente versato, si lascia dietro “il gusto salato delle lacrime dell’innocente”.
Kleiman evoca un dialogo sui modi di vita dei beduini: “Sono all’età della pietra”, dice un ufficiale dell’intelligence; “No! Ai tempi dei Patriarchi” gli viene risposto. Nel saggio di Kleiman i riferimenti alla Bibbia, come quelli all’affare Dreyfus, sono costanti. “Lavoro sporco” dice un soldato, “Qualcuno lo deve pur fare”, gli risponde un altro. E la replica inevitabile: “Ma perché devo essere proprio io?”. E l’altro: “Che vadano nel deserto o all’inferno, per te che differenza fa?”. Kleiman conclude osservando che c’è un lato “oscuro” del sionismo. Ma capirà mai che, per l’Altro, questo “lato oscuro” è fin troppo chiaro?
Se il testo di Kleiman mi lascia un po’ perplesso, ma parecchio interessato, non dissimulerò il mio entusiasmo per l’analisi di Anita Shapira: “Tra ricordo e rimozione”.
Questo entusiasmo si spiega facilmente: sono uno storico e lo è anche Anita Shapira. Nata a Varsavia nel 1940, è arrivata in Pa­lestina nel 1947 come immigrata clandestina4, ha pubblicato un’opera storica che si basa sul “reale”, come per esempio sulle biografie, e sull’immaginario5, cosa che si avvicina ai miei interessi.
Il suo saggio s’inserisce in un’analisi di storia della memoria. Lo scrivo da molti anni ormai, che una delle prospettive della storia di oggi è quella d’inserire la dimensione del tempo proustiana nel lavoro di ricerca; si può capire, quindi, fino a che punto mi senta vicino a questo tipo di analisi.
“La zona d’ombra fra coscienza e memoria diventa più marcata quando si tratta di temi difficili da affrontare alla luce del sole, come, per esempio, la partenza-fuga-allontanamento degli arabi durante la Guerra di Indipendenza d’Israele”. Questo è il punto di partenza di Anita Shapira, ed aggiungerei che questo lavoro è tanto più difficoltoso perché non si tratta, in questo caso, di un fatto vero e proprio, ma di un romanzo che, sicuramente, si basa su fatti concreti, sull’esperienza vissuta da una parte e dall’altra, ma che è anche un’opera letteraria, con la sua parte di immaginario. Non è forse vero che la letteratura “agisce sulle emozioni, crea un mondo d’immagini e di associazioni, verbali e visive, che danno forma alla psiche collettiva?”. Come ha fatto la storia di Khirbet Khiza a divenire man mano quello che gli inglesi (e gli italiani) chiamano “scheletro nell’armadio” e i francesi “un cadavere in soffitta”? è proprio questo che studia accuratamente, e metodicamente, Anita Shapira.
L’autrice sottolinea, fin dall’inizio della sua inchiesta, l’importanza dei temi biblici nel racconto di Yizhar. Dio non comparirà per protestare contro il fatto che il suo popolo manda in esilio un altro popolo?
Shapira nota come S. Yizhar sia un sionista fedele. Suo padre, Zeev Smilansky, non era forse venuto in Palestina “con la Bibbia in una mano e le opere di Tolstoj nell’altra”? Suo zio, Moshe, aveva dato la propria adesione a Brit Shalom, l’alleanza per la pace il cui leader più celebre fu Martin Buber e che militava per la riconciliazione delle comunità. Un altro leader di Brit Shalom fu Jehuda Magnes, rettore dell’Università di Gerusalemme, che emigrò alla vigilia della fondazione dello Stato nel 1948, perché sapeva che questa si sarebbe scontrata con un rifiuto assoluto -nell’immediato- da parte araba.
Dalla sua pubblicazione, nel settembre 1949, Khirbet Khiza fu un bestseller. Ma fu anche oggetto di polemiche? Sì e No. Fra il 1949 e il 1951, le recensioni e gli articoli di stampa si susseguirono. Non intendo rifare, in questa sede, quello che Anita Shapira ha già fatto con eccezionale bravura, ma mettere l’accento su qualche nome e qualche data. Che S. Yizhar sia stato difeso dal “Ner”, organo del movimento pacifista Ihud diretto da Martin Buber, non ha niente di sorprendente. Che sia stato accusato, su organi di stampa nazionalisti, di aver scritto un’opera sbilanciata dove gli arabi sono delle vittime sacrificali e gli ebrei degli esseri potenzialmente satanici, non stupisce affatto. Lo stesso vale per l’accusa di aver dimenticato gli omicidi commessi dagli arabi a partire dal pogrom di Hebron nel 1929.
Fra gli avversari dell’autore di Khirbet Khiza, c’è un nome che mi ha colpito. Nel 1949, un membro della Knesset, rappresentante del partito nazionalista Ha-Lohamim, nato dal gruppo Stern, chiese pubblicamente da quale scuola ebrea fossero usciti tali sadici idioti. Il caso vuole che abbia incontrato a più riprese, in Israele e a Parigi, l’autore di queste parole. Si tratta di Nathan Yelin-Mor, in realtà ex capo dello Stern, poi diventato un convintissimo pacifista, con un lato gentleman britannico che, per chi conosceva il suo passato, aveva qualcosa di stupefacente. Ciò prova, almeno, che il futuro non è scritto fatalmente nel passato. Anita Shapira ci racconta che, nello stesso momento, un giornale di Nablus faceva una recensione simpatizzante nei confronti del libro di S. Yizhar, cosa che poteva aprire una porta al dialogo; un dialogo di cui il meno che si possa dire è che ha tardato a venire.
Nel 1964, il libro di S. Yizhar fu inserito nei programmi degli ultimi anni del liceo e dei primi anni dell’università. Ognuno apprezzerà tale misura in base alla sua percezione di questo conflitto che, da arabo-israeliano, è divenuto via via israelo-palestinese. Nel frattempo l’immigrazione massiccia aveva cambiato radicalmente i connotati del problema. La generazione del 1948 non era ormai che una minoranza e, a dispetto dei bei principi manifestati nella dichiarazione d’indipendenza, Ben Gurion disse ad un deputato arabo della Knesset: “Non dimentichi che questo paese non è stato fatto per gli arabi ma per gli ebrei”. Nessun testo ufficiale dello Stato israeliano ha mai definito le frontiere d’Israele.
Tuttavia, il dibattito doveva riemergere nel 1978, vale a dire dopo il cambiamento della maggioranza nella Knesset. L’autore de La rabbia del vento si collocò assolutamente al fianco dei pacifisti, denunciando quelli che chiamò “i poeti dell’annessione”. Aveva però aderito nel 1965 al Rafi, la scissione del partito laburista alla cui guida si trovavano Ben Gurion, Shimon Peres e Moshe Dayan. Decisamente non brillava per coerenza. Nonostante ciò, il 16 gennaio del 1978, giorno in cui si teneva a Gerusalemme una riunione della Commissione Mista israelo-egiziana, doveva essere trasmesso in televisione un film tratto dal racconto di S. Yizhar. Il film fu proiettato il 13 febbraio, dopo un dibattito di cui Anita Shapira narra i dettagli. Il dibattito non aveva opposto solo la destra e la sinistra: anche una parte della direzione della Histadrut, nella fattispecie 13 deputati laburisti, si erano pronunciati per il divieto della proiezione.
Ma bisogna sempre pensare al peggio? Ripetiamo, con le parole di Paul Claudel, nel sottotitolo di La scarpetta di raso: [le pire] n’est pas toujours sûr [non è sempre detto che accada il peggio, ndt].
All’inizio di questo 2006, accanto ai sinistri eventi accaduti in Medio Oriente, in Iraq ma anche in Israele-Palestina, è stato pubblicato, a Parigi, un libro intitolato Ta’ayush. Journal d’un combat pour la paix Israël-Palestine 2002-2005, [Ta’ayush. Diario di una battaglia per la pace in Israele-Palestina, ndt], la cui prefazione è di un mio vecchio amico, l’indianista Charles Malamoud, e il cui autore, David Shulman, è anche lui indianista6. Ta’ayush è una parola araba che significa “coesistenza”. è bello che questo movimento assolutamente minoritario, i cui principali dirigenti sono degli ebrei israeliani, abbia un nome arabo. Come dice Charles Malamoud, “agli occhi di David Shulman, l’ingiustizia, la brutalità, il disprezzo contribuiscono all’abbruttimento del mondo”. Ta’ayush è un movimento di disobbedienza civile che mira a promuovere la coesistenza attraverso atti altamente simbolici, per esempio mietere, con la falce, un campo palestinese per i palestinesi; oppure reimpiantare degli ulivi proprio dove altri ulivi furono sradicati; piantare un gelso dove un altro gelso era stato distrutto; parlare il più possibile agli abitanti dei villaggi palestinesi nella loro lingua -tutto questo sotto gli insulti dei coloni ed il controllo ostile delle forze governative.
Questo movimento, ispirato a Gandhi, ha un futuro? Come avrebbe detto Léon Blum, ci credo perché ci spero.
Scrivo queste poche pagine nel luglio del 2006, mentre l’intervento, sempre più evidente, dell’Iran in quello che fu un conflitto regionale, se non addirittura locale, mette in causa nientemeno che la pace nel mondo, e che l’escalation bellica attuata da Israele, in risposta agli Hezbollah, ha già provocato la fuga di 500 mila nuovi rifugiati. Sicuramente la soluzione non arriverà entro sera.