“L’altro ieri notte è stato scatenato a Budapest un putsch controrivoluzionario. Mentre scriviamo i ribelli stanno arrendendosi: il putsch sembra avviato alla sconfitta. Non siamo di fronte a manifestazioni di piazza che abbiano dato luogo a conflitto, disordini e provocazioni. Si tratta di un attacco armato, diretto contro i gangli vitali della capitale ungherese, i centri dello Stato, i nodi decisivi. è chiaramente volto a rovesciare con violenza il regime di democrazia popolare, il governo legittimo, l’assetto sociale e politico del paese. è un altro dei criminosi tentativi volti a spezzare con la sedizione e con forza il cammino della rivoluzione socialista nel mondo. Quando crepitano le armi dei controrivoluzionari si sta da una parte o dall’altra della barricata. Un terzo campo non c’è. Noi siamo per il socialismo, per coloro che in questo momento lo difendono con le armi alla mano in Ungheria. E auguriamo a essi la vittoria”. Così il 25 ottobre 1956 Pietro Ingrao pubblicava sulla prima pagina de “L’Unità” questa dura reprimenda contro le manifestazioni antisovietiche scatenate a Budapest. Anche allora come oggi per Ucraina e Gaza la rissa ideologica aveva prevalenza sull’ingiusta catastrofe di morti, vittime dell’arroganza politica dell’Urss che, in piena Guerra fredda, voleva ribadire il proprio dominio sui paesi dell’Est europeo, incurante della loro libertà e del loro desiderio di democrazia.
Come controcanto  il quotidiano socialista “Avanti” pubblicava  il documento con cui la Cgil, il 27 ottobre 1956, deplorava l’intervento delle truppe sovietiche in Ungheria. “Di fronte ai tragici fatti di Ungheria e alla giustificata commozione che hanno suscitato nel popolo italiano, forze reazionarie cercano di inscenare speculazioni miranti a perpetuare la divisione tra i lavoratori, a creare disorientamento tra le loro file, a ingenerare sfiducia verso le loro organizzazioni per indebolire la capacità di azione a difesa dei loro interessi economici e sociali. La Cgil chiama i lavoratori italiani a respingere decisamente queste speculazioni e a portare avanti il processo unitario in corso nel paese per il trionfo nei comuni ideali di progresso sociale, di libertà e di pace”.
Il dibattito fu intenso e pieno di contraddizioni. Come accade oggi per l’invasione della Ucraina, da parte delle milizie bolsceviche la “verità”, parola che in russo denominava il maggiore allora quotidiano sovietico “Pravda”, non riusciva a farsi strada.
I drammatici avvenimenti tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre vedono gli Usa di Eisenhower stanziare venti milioni di dollari per cibo e medicinali. Kruscev incontra Tito il quale loda l’“inevitabile e ragionevole invasione”. Il 3 novembre in un comizio a Torino Giorgio Amendola auspica, con il caloroso applauso degli astanti, un risolutivo intervento armato dell’Urss in Ungheria. Imre Nagy, a capo del governo ungherese, inserisce tra i ministri anche il filosofo Gyorgy Lukàcs. Il 4 novembre il settimanale dei giovani comunisti “Nuova Generazione”, diretto da Sandro Curzi, ospita un documento critico degli studenti medi (tra i firmatari Achille Occhetto segretario del circolo universitario milanese) sulla rivolta in Ungheria intitolato: “Il furore attraversa il cuore dei giovani comunisti”. Invano Giorgio Amendola e Gian Carlo Pajetta invocarono provvedimenti disciplinari, ma Togliatti non volle intervenire. Il “Migliore” aveva già pronunciato parole solidali con il Pcus, in una lettera nella quale invitava, con coerenza e concreta riflessione, a porre fine alla rivolta ungherese con la forza. Accentuando la sua preoccupazione per il dissenso interno al Pci (da una parte coloro che sostenevano che le responsabilità di quanto accaduto in Ungheria risiedevano nell’abbandono dei metodi stalinisti, dall’altra coloro che accusavano la direzione del Pci di non avere preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest, da appoggiare  e che era giustamente motivata). Ma Togliatti informa il Pcus della preoccupazione di poter essere sostituito da Giuseppe Di Vittorio che, in un documento non approvato dal partito, si era schierato dalla parte di rivoltosi, che Togliatti al contrario definisce “esaltati”. Di Vittorio fu costretto a ritrattare la sua posizione per non essere cacciato dal partito.
Ci fu un appello per la libertà d’Ungheria, da “L’Espresso” e da “Il Mondo”, sottoscritto da un centinaio di intellettuali terza forzisti e socialisti: Bobbio, Scalfari, Moravia, Salvemini, Montale, Flaiano, Zevi, Ragghianti, Pannunzio, Chiaromonte, Bassani, Benedetti, Codignola, Petrassi, Ernesto Rossi, Silone, Spini, Valiani, Bruno Zevi. Tutti preoccupati “di nuovi pericoli di guerra e di minacce di reazioni fasciste, chiedono agli uomini liberi di levare proteste e un appello affinché al popolo ungherese sia dato il diritto di scegliere in piena libertà quelle istituzioni che meglio rispondano agli ideali democratici”. A Roma, all’Eur, si aprì dall’8 al 14 dicembre l’VIII congresso del Pci, nei giorni in cui la crisi di Suez vedeva il popolo egiziano aggredito da Israele. Togliatti non arretrò. Anzi ribadì la dura necessità che ha reso inevitabile l’intervento sovietico “per sbarrare la strada al fascismo e alla guerra, per adempiere non solo a un dovere di classe, ma a un dovere verso tutte le forze della democrazia e della pace”. Al congresso e alle sue assemblee decentrate avevano partecipato una media del 20-30% degli iscritti. Cioè 500.000 circa dei supposti due milioni di aderenti, un quarto di militanti: i più stalinisti da un lato e dall’altro i più decisi a battersi contro il risorgente, sanguinoso stalinismo. Iniziò da lì l’eliminazione di tutti i delegati ostili all’indirizzo di Togliatti. Così denunciò Fabrizio Onofri che già nel luglio ’56 aveva compiuto vistose critiche alla gestione burocratica del partito e all’abbandono  della lotta per aprirsi “una via italiana e democratica verso il socialismo”. L’articolo pubblicato su “Rinascita”, allora diretto da Togliatti, fu denigrato, anche se non poteva non essere pubblicato, “ma che meritava una risposta sprezzante”. Fu titolato infatti “un inammissibile attacco alla politica del partito” e Togliatti replicava sulle stesse pagine: “La realtà dei fatti e della nostra azione rintuzza l’irresponsabile disfattismo”. Onofri nel gennaio ’57 fu espulso dal partito e ha lasciato testimonianza lancinante sul fatto che i compagni del Pci che fino allora gli erano stati vicini evitassero addirittura di salutarlo per strada. Stesso comportamento che era stato riservato a Enrico Terracini al quale, in carcere, nessuno parlava perché aveva abbandonato la linea politica di Stalin. Moralmente imbarazzante l’intervento di Concetto Marchesi, famoso latinista noto per avere lanciato dopo l’8 settembre ’43 un proclama antifascista agli studenti padovani, che pensò bene di rifugiarsi in Svizzera. Critico verso il XX congresso sovietico che aveva denunciato a suo dire “sulla vasta scena del mondo quel suo fragoroso confessionale di domestici peccati; quel congresso rivelava una serie di sconsigliatezze (sic!), di ingiustizie, di errori commessi dall’Unione Sovietica e più ancora in quelle democrazie popolari dove i governanti non vollero vedere le reali necessità dei propri paesi”. Ma poi la curva dell’intervento navigava verso un’ipocrita apologia: “Gli operai e i soldati russi hanno creato con la rivoluzione di ottobre qualcosa di sacro, nel quale noi vediamo incominciata la nuova storia del mondo. Le armate russe si muovono su un cammino che non deve confondere la loro voce con quella degli eserciti bianchi e dei concistori sacerdotali. è indubitabile che senza l’intervento delle forze sovietiche l’Ungheria sarebbe oggi in mano alla più spietata reazione”. E per essere moderno si rallegrava perché Luigi Longo sulle pagine di “Vie Nuove” (settimanale del Pci) “aveva aperto le colonne alle belle figliole”. E spiegava, passando senza tormenti dall’invasione alle belle gambe, che “la mondanità è la propaganda che entra da tutte le porte, del ricco e del povero e si fa ascoltare da tutte le orecchie e applaudire da tutte le mani”. Che dire? Dalla tragedia della violenza spietata alle gioie dell’avanspettacolo.
Fu accolto con un silenzio agghiacciante l’intervento del delegato di Cuneo Antonio Giolitti, che denunciò l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista un governo come quello contro il quale è insorto il popolo ungherese, perché in base ai principi del socialismo era ingiustificabile l’intervento sovietico.
Deciso avversario di Giolitti fu Giorgio Napolitano che imbellettando il suo discorso con l’esaltazione dello spirito critico di Gramsci (valido nel 1956, ma non nel decennio in cui Gramsci fu vilipeso ed emarginato politicamente) infieriva contro Giolitti perché “aveva sostenuto che sia in Polonia che in Ungheria hanno difeso il partito non quelli che hanno taciuto, ma quelli che hanno criticato”. E invece continuava il futuro presidente della Repubblica: “L’esercito sovietico aveva impedito che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, tanto da essere capace di difendere non solo gli interessi militari e strategici dell’Urss, ma a salvare la pace nel mondo”. Appare invece di più autentica credibilità l’azione giornalistica sviluppata da Indro Montanelli, fascista pentito e liberale conservatore di intelligente spessore, che trovandosi a Budapest ebbe a scrivere sul “Corriere della Sera” che laggiù si era accesa una rivolta non borghese, di popolo, di studenti, di intellettuali e di contadini e di operai che non contestavano il socialismo, ma ne sognavano una diversa versione. Montanelli racconta quello che ha visto: “Per quattro giorni e quattro notti Budapest fu una fornace sulla quale si abbatteva un uragano di fuoco. Comunisti che si sono ribellati  a un certo comunismo”. Esilaranti le narrazioni della sua sosta in un albergo a Budapest, costretto a dormire nello stesso letto con il socialdemocratico Matteo Matteotti (figlio di Giacomo). Solo Togliatti continuò a usare il termine “fatti di Ungheria” per spiegare, attenuandone i toni, il senso di una tragedia politica dopo la quale “tutto doveva rimanere uguale a prima”.
Infatti Imre Nagy (1896-1958) dopo avere aderito al Pcus  rientrò in patria nel 1953 diventando primo ministro, tentando di portare il suo paese su posizioni autonome rispetto a Mosca. Destituito da Rakosi nel 1955 venne richiamato al governo nel 1956; stroncata l’insurrezione, dopo avere denunciato il Patto di Varsavia e aver richiesto l’intervento delle Nazioni Unite, subì un processo farsa e fu impiccato. Togliatti richiamò, impietoso come sempre, su “Paese Sera” “le leggi inesorabili della lotta politica”. Invano Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte con il loro periodico “Tempo Presente”, chiesero il rispetto della democrazia e così Pio XII che, in un radio messaggio, implorò “la commozione del mondo dimostra quanto sia necessario e urgente restituire la libertà ai popoli che ne sono stati spogliati”. Italo Calvino, Natalino Sapegno, Loris Fortuna, Delio Cantimori si dimissionano dal partito; Togliatti parla di loro ironizzando, Amendola li definisce “traditori e buffoni”. Nelle elezioni del maggio ’58 il Pci incrementa i propri voti. Albert Camus prende posizione senza mezzi termini a fianco della rivoluzione d’Ungheria: “Questo popolo massacrato è nostro e non dobbiamo tradire, qui o altrove, ciò per cui i combattenti ungheresi sono morti, non giustificare mai, qui o altrove, ciò che li ha fatti cadere. Gli operai e gli intellettuali ungheresi ci hanno fatto comprendere che la loro sventura è la nostra, anche le loro speranze ci appartengono, a dispetto della loro miseria, dell’esilio, della catene. Ci hanno lasciato una sublime eredità che dobbiamo meritarci: la libertà che non hanno scelto, ma che in un sol giorno ci hanno reso”.
Toccherà decenni dopo trovare, nel Pci trasformato in altre strutture organizzative, tracce di rivisitazione non più ideologizzata del drammatico ’56. Piero Fassino, dirigente dei Ds,  che nel 1988 partecipò alla commemorazione al cimitero parigino Pére Lachaise davanti al monumento costruito dagli esuli ungheresi in ricordo di Imre Nagy, racconta: “La mattina dell’evento mi telefonò Gian Carlo Pajetta che disapprovava  questa mia scelta. Ribattei che ero stato autorizzato dal segretario del Partito. La comunicazione fu interrotta bruscamente”. Secondo Fassino era giunto il momento di dire parole chiare e definitive sul ’56.
Norberto Bobbio sul quotidiano “La Stampa” il 16 ottobre ’86, trent’anni dopo, scriveva: “Come potevano essere errori, se il partito è, qualunque cosa faccia, la bocca della verità? Come potevano essere errori se l’azione politica può essere giudicata solo in base alla massima che il fine giustifica i mezzi e quella repressione pur nella sua spietatezza era necessaria al raggiungimento del fine? Come potevano essere errori se il fine era grandioso, radioso, tanto nobile da tollerare, anzi da richiedere mezzi non nobili e anche ignobili? La società senza classi è sempre più lontana e i mezzi adoperati dal partito guida per attuarla hanno condotto sinora a un fine diametralmente opposto. Non possono riconoscere quei giudizi di  allora come errori senza risalire alle origini, cioè senza riconoscere come menzognera quella concezione del partito, della politica, della storia che li ha fatti essere quello che erano e che oggi non possono più essere”.
Pietro Ingrao, poi diventato presidente della Camera, ancora nel 1966 aveva rivendicato la scelta dell’indimenticabile ’56:  “Da una parte sola della barricata: per realizzare un mutamento di struttura e di potere per una trasformazione democratica e socialista come problema attuale della società italiana. Quella scelta coglieva e riaffermava il valore decisivo, rinnovatore e liberatore che ha l’esistenza dell’Urss e dei paesi socialisti”. I fatti storici ancora una volta messi sotto i piedi, considerato che di quel contesto politico non esiste più nulla.