In copertina il Kibbutz Haogen, negli anni Quaranta. La dedichiamo a Israele, quello di un tempo ormai lontanissimo, quello amato dai democratici e dai socialisti di tutto il mondo. Cosa ne resta oggi? A fianco l’intervista ad Anna Foa. Qui sotto riportiamo brani di due lettere che il vecchio Gualtiero Cividalli, emigrato con la famiglia in Palestina all’indomani delle leggi razziali italiane, scrisse nella primavera del 1948 al figlio e alle figlie in armi.
A Piero, Bona e Paola: “[…] Questi ultimi giorni poi sono stati terribili. In un primo tempo i giornali avevano dato la notizia che fra le vittime del convoglio diretto all’Università c’erano anche il professore Cassuto e la moglie (Bice). Soltanto molto più tardi abbiamo saputo che la notizia non era vera; ma era invece purtroppo confermata la morte di Bonaventura e dell’Anna Cassuto. Pochi giorni prima avevamo saputo che Reuben Artom era morto nella battaglia per il Kastel. Come si fa a pensare ad altro, come si può staccare la mente da tanta tragedia, che non è poi che una parte della tragedia del nostro popolo e di tutto il mondo? E come anche non sentire che un destino al quale non ci si può sottrarre sembra dominare le nostre vite? Reuben è il terzo dei fratelli che muore qui in Erez Israel, seguendo i due maggiori, morti quando questo periodo di guerra non era ancora iniziato. E l’Anna aveva superato gli orrori della deportazione, era stata restituita ai suoi figli per abbandonarli di nuovo dopo così breve tempo. Bonaventura era uno dei pochi fra gli italiani di Erez Israel che avesse raggiunto qui, anche nel suo lavoro, quanto non aveva in Italia; e la preoccupazione maggiore era per i figli. È vero che ogni giorno cadono molte vittime e il fatto che non le conosciamo non significa che ognuna di esse non rappresenti una tragedia, ma quando la tragedia ci tocca più da vicino ci sentiamo presi da uno sgomento che paralizza ogni forza. Si sa che bisogna reagire; così si riprende a vivere e a lavorare, ma il peso che grava sul cuore è sempre più grande; quel peso che non mi pare mi abbia mai lasciato da quella mattina terribile in cui sapemmo dell’assassinio di Carlo e di Nello. A differenza degli altri questo peso non mi si fa più leggero, anzi mi grava ancora di più quando sento parlare di eccidi di arabi. Il massacro di Deir Yasin mi ha spaventato più di qualunque cosa, anche perché son convinto che tutto il male che si fa vien ripagato a mille doppi. Soprattutto mi atterrisce l’idea che gli ebrei debbano fare quello che fanno gli altri; che le colpe altrui siano prese a giustificazione di atti colpevoli. Essere vittime della violenza e dell’ingiustizia è meglio che essere ingiusti e violenti. Alla lunga sono le vittime che finiscono col vincere. La sorte di Hitler e di Mussolini dovrebbe servire di insegnamento. Invece succede il contrario. Gli ebrei hanno resistito per tanti secoli soltanto perché sono rimasti fedeli al principio che qualunque cosa facessero gli altri a loro non era permesso tradire una legge suprema di giustizia. Questo principio deve stare al di sopra di qualsiasi interesse momentaneo o vantaggio nazionale. La difesa contro la violenza, però, è un diritto e un dovere. La difficoltà consiste, come sempre, nel fissare il confine. Bisogna ricordarsi che da una parte e dall’altra ci sono creature umane [...]”.
A Piero: “Il tuo sentimento di orrore davanti all’uccisione di uomini che dovrebbero tutti essere fratelli non passerà (lo credo e lo spero) neppure se dovrai trovarti molte altre volte davanti alla dolorosa necessità della difesa armata. Ma non dimenticare neppure che ci sono orrori anche più grandi di quella lotta che ha almeno il pregio di essere aperta e decisa. Pensa agli orrori delle persecuzioni contro gli inermi e i deboli, alla caccia all’uomo per le deportazioni. Se ti ricordi della buona zia Clotilde e di tanti altri nostri, forse capirai il perché di questa lotta di oggi e troverai nel tuo cuore la forza di tutto superare. Meglio potere almeno affrontare i rischi in libertà e far pagare cara la nostra vita che essere braccati e massacrati come bestie da macello. E c’è così la speranza (nel mio cuore direi la certezza) che con il nostro sacrificio di oggi si gettano le basi per un migliore avvenire per noi e per gli altri. Basta non perdere, neppure quando siamo costretti ad usare la forza, l’orrore della violenza; mantenere l’amore per la pace e per la giustizia. Speriamo che il periodo più duro passi presto [...]”.
“Per noi e per gli altri”. Già: la chiave di volta, di tutto e per tutti. Che lì qualcuno ha voluto demolire.
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