Cari amici,
il Natale 2024 è alle porte, e con esso il tradizionale giro di scommesse sulla nevicata natalizia. L’ufficio meteorologico stima le probabilità al 73%. Non che questo significhi nevicate intense da costa a costa, giusto un’imbiancata su tutta l’Inghilterra il 25 dicembre.
Noi britannici siamo famosi per i nostri discorsi sul clima. È una routine mattutina, un modo per attaccare bottone con gli sconosciuti sul treno, un argomento per rompere il ghiaccio agli eventi formali, un’esperienza che ci accomuna tutti: “Ciao, oggi fa freddo, eh?”; “Vorrei che smettesse di piovere…”; “Non è fantastico? Finalmente un raggio di sole!”. Anche se nel tempo ne abbiamo perdute tante, ci sono molte parole nella nostra lingua per descrivere il clima, termini specifici di alcune località, come “glincey”, che descrive il tipico clima del Kent, ghiacciato e scivoloso, o “carry”, che un po’ in tutto il paese sta a indicare un rapido spostamento di nubi. Certo, ci si potrebbe chiedere chi mai usi questo gergo antico, ma ci sono sempre le poesie a tenerlo vivo, e il profondo legame che si è instaurato tra quelle parole e il clima che descrivono.
Ho tratto questi termini dal libro di Robert MacFarlane, Landmarks, che conduce in un viaggio attraverso vecchi linguaggi e paesaggi. Abbandonarsi ai termini del passato lascia addosso una sensazione di sicurezza. È affascinante immaginare come venisse mappato e analizzato il meteo in un’epoca in cui al clima si dedicava un’attenzione intima e immaginifica, perché si trattava di un fenomeno locale che toccava profondamente le vite di ciascuno. Forse si tratta di parole che sono andate perdute quando le trasmissioni meteo sono diventate un fenomeno nazionale, con grandi grafici che suddividevano il paese in nord e sud e non si addentravano nel livello locale. Credo che quelle parole ci riportino a un periodo più innocente.
Il primo servizio di previsioni meteorologiche formalizzato, scientifico o organizzato è arrivato negli anni Sessanta dell’Ottocento, quando si rese necessario per trovare soluzioni all’ennesimo disastro navale (7.042 navi affondate lungo le nostre coste solo tra il 1855 e il 1860). Fu l’ammiraglio Robert Fitzroy, capitano del “The Beagle”, nave su cui Charles Darwin aveva girato il mondo, a inventare le previsioni marinare e quelle generiche, materia che presto sarebbe diventata una vera e propria ossessione nazionale.
Oggi, però, parlare del meteo non è più cosa gradevole, ma porta con sé un senso di pericolo e paura. Certo, abbiamo sempre avuto la nostra dose di disastri climatici, ma prima si verificavano una volta ogni decade, o anche di più. Pensando alle vere catastrofi mi vengono in mente l’alluvione del 1953 o la tempesta del 1987. Oggi, con l’innalzamento delle temperature, le previsioni meteo sono diventate questione di vita e di morte. Un meteorologo non poteva certo immaginare che sarebbe arrivata a previsioni di 40 gradi celsius, non prima del 2050, ma ci siamo arrivati -e con oltre 25 anni di anticipo. Altrove le cose vanno anche peggio.
Mentre vi scrivo, il mare sta sferzando con violenza la costa occidentale e forti venti si abbattono sul nostro Natale. I cellulari di tre milioni di persone in tutta la parte ovest e sud-ovest del paese hanno risuonato con la sirena d’allarme e il successivo messaggio di allerta che avvertiva dei rischi mortali provocati dalla previsione di venti ben oltre i 100 km all’ora. Centinaia di migliaia di persone sono rimaste senza energia elettrica e gli è stato consigliato di restare in casa. I disagi alla circolazione sono diffusi, anche se, a dire il vero, non è che le nostre ferrovie siano note per la loro affidabilità neppure quando il clima è normale. Il nocciolo della questione è che non siamo preparati agli eventi climatici estremi, né disponiamo della terminologia corretta per descriverli.
Volevo cercare un posto tranquillo, prendermi una pausa e scrivere qualcosa di più gioioso su questa che è, in fin dei conti, la stagione della buona volontà, ma non ho potuto ignorare il meteo, che incarna il senso di quelle sfide estreme cui il nostro paese va incontro. Sul futuro della nostra politica aleggiano nubi di tempesta, e nemmeno per quelle disponiamo più delle parole giuste. Come ha scritto Jonathan Freedland sul “Guardian”, a meno che le persone non comincino a percepire miglioramenti tangibili sulle proprie vite, il futuro di tutti rimarrà a rischio. Bisogna che le cose cambino sin dai livelli più basilari e locali, se non vogliamo andare incontro a scenari politici ultranazionalisti alla Nigel Farage. Ci serve un racconto migliore del futuro, eppure al momento l’idealismo e la speranza non sono che uno sprazzo di arcobaleno nel cielo tempestoso. Vorrei tanto prendere quell’idealismo e quella speranza, impacchettarli con una bella carta regalo e lasciarli sotto gli alberi di tutti, a fianco di un altro dono: quello della lettura. Sembra infatti che la lettura stia sparendo dal nostro mondo. Le biblioteche chiudono, o limitano gli accessi. Le università, in difficoltà finanziarie, stanno chiudendo i corsi di laurea in Letteratura inglese. Solo il 35% dei nostri giovani tra gli 8 e i 18 anni leggono per diletto, e anche gli studenti con il massimo dei voti abbandonano la lettura per perseguire strade finalizzate a costruirsi una carriera remunerativa. Tutti i nostri dispositivi tecnologici traboccano di informazioni, eppure credo che nulla possa sostituire l’esperienza della lettura, dell’amare un libro e condividerlo.
Sotto gli alberi dei miei concittadini metterei anche altre cose: vorrei regalare a tutti la gioia e la potenza della condivisione delle idee, della comprensione empatica, della curiosità, del senso di comunità e di compassione. Legherei tutto insieme con un bel fiocco verde fatto di immaginazione, che ci possa aiutare a vedere un mondo migliore nel presente e nel futuro.
Fuori fa freddo, il vento è pungente e la pioggia ci martella. Le previsioni a lungo periodo non sono chiare, ma facciamo in modo che torni un po’ di sole.
(traduzione di Stefano Ignone)