Le manifestazioni di massa in tutta Israele chiedono di terminare la guerra per liberare i cinquanta ostaggi israeliani, vivi, moribondi o morti, tenuti in condizioni crudeli da quasi due anni dai terroristi a Gaza. Partecipo alle manifestazioni assieme ai gruppi più radicali; noi siamo contro la guerra, anche per la tragedia spaventosa a cui è sottoposta la popolazione palestinese nella striscia di Gaza: i trasferimenti forzati proposti; le distruzioni sistematiche; l’eccidio indifferenziato di più di sessantamila civili, tra cui quasi ventimila bambini; lo sfollamento continuo e ripetuto di centinaia di migliaia di persone affamate, pigiate in zone “sicure” ma colpite “per sbaglio o come danni accidentali”, anche se in coda per ottenere cibo, o assieme a giornalisti o paramedici che accorrono in aiuto. Ci opponiamo anche alla violenza aumentata in Cisgiordania: espulsione di comunità intere sotto minacce e incursioni; espropriazione di terre; attacchi continui, veri pogrom di teppisti ebrei armati, difesi dall’esercito, quando non attaccano persino i soldati stessi. Noi pensiamo che le cause prime della situazione, apparentemente insolubile, siano il fanatismo intransigente di Hamas da una parte e il suprematismo ebraico dall’altra, che vogliono entrambi il dominio esclusivo in tutta la Terra Santa, convinti ciascuno che con la forza, e solo con essa, si possa “vincere” il nemico. I termini dell’accordo che ora forse stanno maturando sono simili a quello che sarebbe potuto avvenire subito dopo l’attacco del 7 ottobre e prima della disastrosa guerra di vendetta, sotto l’egida della coalizione internazionale, inclusi i paesi arabi che temono il terrorismo fanatico: coalizione che si è smembrata subito a causa della violenta reazione israeliana. Molti governi e popoli sono ora contro Israele, e c’è un grave rigurgito del peggiore antisemitismo.
Appunto perciò non sappiamo che cosa possa esercitare maggiore pressione sul governo israeliano o su Hamas per ottenere un accordo di tregua: queste manifestazioni o le minacce di conquista totale della Striscia. Per ora, del resto, ciò che è rimasto del terrorismo micidiale e sanguinario di Hamas ricorda un’eroica resistenza partigiana. Mentre le minacce israeliane di conquistare anche la città stessa di Gaza, per rimanerci poi impantanati, dovrebbero spaventare noi stessi, israeliani, eredi del genocidio degli ebrei. La spaventosa tragedia nella Striscia di Gaza dovrebbe ricordarci il genocidio che precedette l’Olocausto: la micidiale marcia forzata degli armeni durante la Prima guerra mondiale, anche senza campi di sterminio.
Invece l’euforia in Israele dello scorso maggio, dopo l’attacco al progetto nucleare dell’Iran, ricorda gli album della vittoria lampo nel Sinai del 1956 e quelli della guerra dei sei giorni del 1967. Entrambe vittorie di Pirro, anche se la seconda era riuscita a sciogliere l’angoscia della minaccia concordata da tre stati arabi su tre fronti contemporanei. Ma Israele, ebbra dell’impero conquistato in sei giorni, non seppe sormontare il rifiuto totale di pace e di trattativa degli stati arabi a Khartum né liberarsi dalla maledizione coloniale appena acquistata.
Conquiste territoriali ed euforia che si svilupparono in questi cinquantotto anni in messianesimo, suprematismo e nazionalismo imperialistico. Questi, infatti, sono riusciti a far crollare tutti i tentativi di apertura a un futuro diverso: ricordo qui le proposte di Sadat attraverso Kissinger prima della guerra dell’ottobre 1973, il processo di Oslo degli anni 1992-’95 e la proposta saudita e della Lega Araba del 2002, a cui Israele non ha mai reagito.
Ci sarebbe stata, ci sarebbe ancora una via diversa? Nel Medio Oriente, dicono, solo la forza può salvarci, noi piccola minoranza di otto milioni in un fazzoletto di terra. Non sono pacifista e comprendo la necessità di assicurare la sicurezza dei cittadini contro il terrore e alle frontiere (crollate purtroppo nell’ottobre di due anni fa). Ma credo che non abbiamo veramente cercato le possibilità diplomatiche e politiche per cambiare la situazione geopolitica e ridurre le ragioni dell’odio popolare tra gli arabi e i musulmani, su cui germoglia il terrore. La pace con l’Egitto, grazie al coraggio di Sadat e Begin, avrebbe potuto essere un ponte per procedere a un’integrazione progressiva dello Stato degli ebrei nel Medio Oriente. Mubarak, il successore di Sadat, ha per anni chiesto a Israele di continuare il processo, riducendo la minaccia (nucleare?) non convenzionale agli occhi dei vicini d’Israele e aprendo un possibile futuro per i palestinesi. Rabin fu convinto, pur reticente, alle trattative di Oslo coi palestinesi, che permisero la pace con la Giordania di Hussein, ma fu assassinato da un fanatico ebreo, come Sadat da fanatici islamisti. Il processo di pacificazione fu bloccato dal terrore degli estremisti ebrei e arabi e dall’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Queste ultime furono abbandonate nel 2003 da “Arik” Sharon, con decisione unilaterale e senza accordo coi palestinesi, chiudendo così due milioni e più di palestinesi, per lo più profughi già dal 1948, in quei 350 chilometri quadrati divenuti la più grande prigione all’aria aperta, dominata da terroristi fanatici e integralisti.
Oltre alla perdurante pace fredda con l’Egitto e la Giordania, ci esaltiamo degli accordi di Abramo, promossi dalla precedente amministrazione Trump, con regimi monarchici non limitrofi, con cui ci sono interessi comuni, economici, militari e di intelligence contro l’Iran. Ma le due carte di valore in mano a Israele per promuovere l’integrazione nella regione sono appunto i territori occupati abitati da circa cinque milioni di palestinesi, sotto controllo militare israeliano più o meno diretto e totale, e l’arsenale non convenzionale, tenuto sotto un velo di opacità, ma temuto da tutti i paesi limitrofi. Si dice, per esempio, che il ministro della difesa israeliano, il generale Moshe Dayan, atterrito dall’attacco egiziano a sorpresa nel 1973, avesse proposto di fare uso dell’arsenale non convenzionale. Israele, tra l’altro, non è firmataria della convenzione Nnpt contro la proliferazione nucleare (assieme soltanto a India, Pakistan e Corea del Nord) e quindi non è sotto controllo internazionale.
Dal punto di vista israeliano, purtroppo, sembra che nessuna delle due carte sia trattabile. L’anno scorso non meno di 99 parlamentari su 120, cioè un’unanimità di coalizione e opposizione assieme, esclusi gli arabi, hanno votato contro l’eventuale riconoscimento internazionale dello stato di Palestina, malgrado l’impasse nelle trattative dovuta a Israele. Pochi mesi dopo, 68 deputati della maggioranza, senza voti contrari dell’opposizione, eccetto appunto gli arabi, hanno bocciato la possibilità di uno stato palestinese a fianco d’Israele, anche se parte dell’accordo di pace multilaterale. E al nucleare nemmeno si deve accennare, dato che Israele è stata contraria alle trattative stesse, sia di Obama, sia adesso di Trump, fidandosi appunto solo della forza e della minaccia di reiterare l’attacco (pare adesso che il successo non sia stato così totale e irreparabile come proclamato). Né si osa accennare che proprio il ritiro di Trump dall’accordo firmato da Obama è stato ciò che ha permesso all’Iran di procedere all’arricchimento dell’uranio fino al 60%, al punto che nessuno osa chiedere a quale funzione civile possano servire i quattrocento chili di uranio così arricchito.
Sotto l’incubo dell’Olocausto, la parola d’ordine è "mai più": ogni minaccia è esistenziale, ogni attacco è visto come potenziale distruzione dello Stato degli ebrei, ogni trattativa di compromesso viene respinta come se somigliasse a quello del Chamberlain del 1938 a Monaco. Mentre Israele è oggi una realtà economica, culturale e sociale irreversibile di otto milioni di ebrei, che può permettersi di rispettare i diritti democratici di una minoranza del 20% dei suoi cittadini, senza pericolo per la sua identità. È una potenza militare a livello quasi mondiale che può permettersi di trattare senza paura con i regimi della regione. Tanto più che gli interessi di questi paesi a stabilizzare la zona, a combattere i movimenti terroristici e a ottenere la fiducia dei loro popoli, invece di lasciarli in preda al fanatismo e all’estremismo, sarebbero identici a quelli israeliani. Tutto il contrario della situazione esistente subito dopo la creazione dello stato d’Israele nel 1948, con soli 650 mila ebrei, quando gli arabi ancora potevano sperare nella sua eliminazione come in una crociata.
Quindi sarebbe l’ora di una revisione della dottrina di sicurezza israeliana, basata soltanto sulla forza. Dovremmo adottare una dottrina fondata su coalizioni di interessi regionali e internazionali e sull’apertura di canali di sviluppo economico, sociale e culturale, anche e anzitutto per i palestinesi: la loro identità nazionale si è formata durante il conflitto territoriale col sionismo e il loro diritto all’autodeterminazione non è meno legittimo di quello israeliano. Il suo riconoscimento potrebbe essere la base di trattative meno impari.
Tanto più che le guerre ora non sono più tra gli eserciti in lizza e non vengono risolte con la capitolazione dei generali o dei governi: le guerre moderne colpiscono sempre più le popolazioni civili tra le quali, poi, i movimenti ideologici o fanatici trovano riparo, voluto o forzato. Eccetto per il caso della Cecenia, dovuto ai metodi di Putin, da anni non c’è esempio di guerra terminata con la vittoria della potenza militare e non del movimento irredentista o anticoloniale. Ma spesso la potenza militare si è trovata impantanata per anni in guerre di logoramento, terminate con la fuga del più potente e, a volte, con un risultato geopolitico peggiore di prima e con un paese lasciato a se stesso, smembrato da lotte interne senza fine. I veri pericoli esistenziali per la sicurezza di Israele, a breve e anche a lungo termine, sono i fanatici estremisti sia tra i musulmani, sia tra gli ebrei, che minacciano sia la coesione interna sia la possibile coesistenza pacifica di due società così fortemente intrecciate.
Rimmon Lavi
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