Cari amici, mi trovo in una campagna amena e verdeggiante. Ci sono querce e nei prati dei villaggi si gioca a cricket; tra le ombre del pomeriggio (il tempo passa velocemente e non sembra intenzionato a comportarsi in modo logico) intravedo Thomas Paine che passeggia lungo la riva di un lago, con sotto il braccio il manoscritto de I diritti dell’uomo. Mary Wollstonecraft, autrice della Rivendicazione dei diritti della donna, sta facendo un picnic con Emmeline Pankhurst, colei che guidò tanto eroicamente la lotta per il suffragio femminile. -“Dove sono?”, chiedo. “Questa... -mi risponde una donna che assomiglia molto a Millicent Fawcett, un’altra importante attivista per i diritti delle donne- ...è la Terra dei Princìpi”, e avanza facendo un cenno di saluto a Nelson Mandela, che sorride e le tende la mano.
La “Terra dei Princìpi...”, sussurro tra me e me. Sembra un posto familiare, e continuo per la mia strada. Noto il testo della Magna Carta del 1215 -che per la prima volta dichiarò che i monarchi non erano al di sopra della legge e definì i diritti degli uomini liberi- affisso a un albero, mentre un gruppo di bambini vi danza attorno come se fosse un “maypole” [Albero di maggio, tradizione campagnola britannica, NdT]. 
L’Habeas Corpus viene trasportato nell’aria da uccelli che lo tengono per il becco, e il Bill of Rights inglese del 1689 -che include la libertà di presentare petizioni al monarca (un passo verso il diritto alla protesta politica)- è nel prato, celebrato da aiuole di fiori piantati in modo da formarne le parole. I giardinieri, stanchi e orgogliosi, brindano tra loro bevendo tazze di tè. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stampata su una bandiera che sventola nella brezza leggera. Le suffragette, vestite con i loro abiti della domenica, stanno dissodando campi da golf, mentre gruppi di “protestanti della fame” si radunano intorno a una tavola imbandita, dopo essere sopravvissuti ai brutali tentativi della polizia di impedir loro di manifestare durante le “Hunger Marches” [“marce della fame”] del 1934 .
Mi siedo a un tavolo vuoto in un’ampia piazza all’aperto, dove le assemblee cittadine si riuniscono per discutere, beh, di tutto; oggi, a quanto pare, la popolazione della Terra dei Princìpi sta dibattendo se tornare in Gran Bretagna, da dove un tempo proveniva, per difendere i diritti per i quali aveva combattuto, di fronte a quella che considera una continua erosione delle libertà civili. Mi sento in pace in questo mondo, che possiede tanta integrità ed è orgoglioso dei suoi valori morali. Un mondo che ospita persone simili è un luogo in cui vale la pena vivere, penso tra me e me. Il voto è unanime.
Poi mi sveglio: sono nel mio letto, nella mia stanza, ad ascoltare le notizie del mattino.
474 manifestanti, alcuni dei quali ottantenni -tra cui un rifugiato ebreo di ottantanove anni-, sono stati arrestati mentre sedevano accanto alla statua di Gandhi, di fronte al Palazzo di Westminster, la cosiddetta “Madre di tutti i parlamenti”, come afferma un manifestante fermato mentre viene fatto salire su un furgone della polizia. Sono stati arrestati per via della formulazione esplicita e inequivocabile dei messaggi che mostravano e perché hanno risposto all’appello di un gruppo che sostiene la campagna “Defend Our Juries”.
È scioccante vedere persone molto anziane arrestate sulla base della legislazione antiterrorismo. Oltre metà dei manifestanti arrestati aveva più di cinquant’anni, in quindici ne avevano più di ottanta. Stringono bastoni e si alzano in piedi con fatica e dolore. Molti di loro sono ex insegnanti, c’è un magistrato, membri del clero, medici, persone che non avevano mai avuto problemi con la legge e che ora vengono perquisite alla ricerca di armi illegali, i loro dati personali raccolti e verificati.
La folla di sostenitori grida: “Vergogna!”.
Ci sono stati più arresti tra questi manifestanti pacifici, che tenevano una veglia silenziosa, di quanti ce ne furono durante le rivolte contro la Poll Tax del 1990.
Il nocciolo della questione è che lo scorso luglio Yvette Cooper, Ministro dell’Interno, applicando il Terrorism Act, ha messo al bando Palestine Action, dopo che suoi attivisti avevano spruzzato di vernice rossa dei jet provocando un danno stimato in sette milioni di sterline. L’organizzazione è stata inserita in un ristretto “club” di terroristi che comprende anche Al-Qaeda.
Ciò significa che chiunque mostri sostegno a Palestine Action -il che include anche tenere in mano un cartello con scritto “I oppose genocide - I support Palestine Action” [Mi oppongo al genocidio - sostengo Palestine Action, NdT]- rischia l’arresto e fino a quattordici anni di carcere. I critici definiscono il divieto una misura draconiana contro la libertà di espressione, un’ulteriore erosione delle libertà civili iniziata dai precedenti governi conservatori e non invertita né modificata dal governo laburista di Keir Starmer.
Palestine Action ha ottenuto il permesso di fare ricorso;  l’udienza è prevista per novembre. Nel frattempo, l’Home Office ha tenuto a precisare che si può ancora protestare contro il genocidio in Palestina, ma senza mostrare alcun sostegno a Palestine Action. Sarebbe utile sapere di più sul perché l’organizzazione è stata messa al bando; se mai c’è stato un momento in cui essere trasparenti, quel momento è ora. Eppure, proprio grazie alla trasparenza è stato rivelato, in un reportage esclusivo firmato da Henry Dyer e Rob Evans sul “Guardian”, che Richard Dannatt, ex capo dell’esercito britannico e membro della Camera dei Lord, ha scritto privatamente ai ministri sollecitandoli a reprimere Palestine Action “su richiesta di una compagnia statunitense che opera nella difesa e che impiega lo stesso Dannatt come consulente.” Nel 2022, gli attivisti avevano preso di mira una fabbrica di proprietà di tale compagnia.
Molto resta ancora da chiarire; nel frattempo Amnesty International ha scritto alla polizia metropolitana chiedendo di astenersi dal procedere con gli arresti. Figure di spicco del movimento per i diritti civili, come Angela Davis, accademici come Naomi Klein e altri importanti studiosi a livello internazionale hanno firmato una lettera aperta per chiedere la revoca del divieto. Importanti personalità ebraiche, tra cui il poeta Michael Rosen e il regista Mike Leigh, stanno facendo lo stesso, unendosi agli appelli di sindacati, studenti e cittadini comuni.
“Quello che vogliamo...” accenna Millicent Fawcett, mentre osserva la posa della sua statua davanti al Parlamento, con il celebre motto: “ovunque il coraggio chiama al coraggio”. Le sorrido, vedendo il suo evidente orgoglio per la scultura di Gillian Wearing. “Quello che vogliamo è che il governo dia la priorità al porre fine al genocidio. Ci sono cose che vanno fatte, altrimenti chissà cosa ci riserverà la storia”.