Premetto che non riesco a vedere la mia presenza qui come una partecipazione scientifica. Lo riconosco tranquillamente: è una partecipazione assolutamente emotiva. E ciononostante la ritengo ugualmente valida per capire perché non si può capire la storia, e non si può capire la memoria soltanto su base scientifica: non bastano i numeri, non bastano le date, non bastano i luoghi. Forse non bastano neanche i libri. Sicuramente non bastano i monumenti. Io non sono contrario ai monumenti. Ben vengano, ma non illudiamoci di scaricare sul monumento la responsabilità della memoria.
Io vengo da Venezia e a Venezia abbiamo uno splendido campo del ghetto; abbiamo due splendidi monumenti alla memoria, fatti da una grande artista della scuola di Picasso. Arrivano i turisti, si mettono in posa, fanno le foto ai monumenti; su uno di questi ci sono tutti i nomi dei deportati da Venezia, messi lì uno a uno, per chi ancora non crede; in realtà non servono a niente, perché sono ormai scoloriti…
A Venezia ne abbiamo tantissimi di monumenti, ma chi ricorda Daniele Manin, chi va a commemorarlo? Chi va a commemorare i morti della prima guerra mondiale? Chi se li ricorda? Sono cose lontane, chi se ne importa…
Perché continuare ad aprire queste ferite?
Allora, ben vengano i monumenti, ma non illudiamoci che siano i monumenti a portare avanti la nostra memoria. E qui chiedo veramente scusa, senza ironia, agli storici presenti. Io ho una grande sfiducia nella storia. Si è parlato della soggettività della storia, della sua politicizzazione, e strumentalizzazione. Ma ci basta una storia oggettiva, scientifica, distaccata? Il giusto distacco della scienza ci basta a tramandare la memoria? Ci basta a una pacificazione reale, basata sulla memoria, a una pacificazione che non sia solo “mettiamoci una pietra sopra”, e dimentichiamo, a una pacificazione che sia comprensione reciproca?
Non credo nel tramandare collettivo, che può essere solo una derivata. Io credo fortemente nel carico che ciascuno di noi si fa della propria storia e della propria memoria. E quando ciascuno di noi si riunirà e sarà un consesso di singoli, una società, allora crederò nel collettivo.
E’ la prima volta che partecipo a un convegno con dei tedeschi al tavolo. Perché? Potrei rispondere che nella mia carriera di anglista semplicemente non ho avuto occasioni. E tuttavia ho avuto convegni con tutte le nazionalità.
Il fatto è che mi imbarazzava. Questo è il convegno più difficile a cui io abbia mai partecipato. Emotivamente difficile, psicologicamente difficile, perché anch’io sono, non un figlio, ma un nipote della Shoah. E non riesco a fare lo scienziato, riesco soltanto a cercare un compromesso tra quello che ho imparato a scuola e ciò che la mia famiglia mi ha tramandato. Io sono nato nel ’46 e tutta la mia infanzia è trascorsa tra le lacrime dei miei genitori, che piangevano una famiglia di morti.
Penserete che sto facendo il patetico. Invece no: semplicemente questa è la mia verità. E con la mia verità ci dobbiamo confrontare, come con la verità di ciascuno di noi. Non possiamo nasconderci. Mi ha scioccato dunque la signora che, uscita da Auschwitz, questa mattina si è alzata per dirmi che aveva apprezzato il mio intervento. E mi ha veramente turbato l’intervento del prof. Miething. Mi ha scosso per piccolissime verità, che sono la prospettiva dell’altro. Perché la storia è fatta anche di emozioni, la storia è fatta di coscienza, non si può farla soltanto con numeri, date e luoghi. Allora, il prof. Miething ha detto due piccole cose che mi hanno scioccato.
Quando andava in Inghilterra, da studente, veniva immediatamente individuato come tedesco. Ecco, quando il prof. Miething ha detto questo, ho cercato di capire. E non avrei voluto essere nei suoi panni, o in quelli di qualsiasi tedesco riconosciuto come tale solo perché si porta dietro ingiustamente un carico “di colpe”, responsabilità, di cui sicuramente lui non è tenuto a sentirsi colpevole.
Ma come faccio io a non tramandare ai miei figli la memoria dei miei genitori e la memoria dei genitori dei miei genitori? Quando mio padre è morto, a 90 anni, sette anni fa, continuava a sognare che suo padre tornava da Auschwitz e lui, figlio, gli chiedeva: “Ma dove sei stato tutto questo tempo?”. Come a rimproverargli l’assenza: un padre che ha abbandonato il figlio. E mio padre quelle notti piangeva. Io queste cose le ho sapute e le ho vissute in prima persona. E io mi sento colpevole di passare ...[continua]

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