Marina Piazza
Pochissime parole introduttive, per spiegare perché abbiamo lavorato su questa proposta e perché la proponiamo alla discussione.
In genere le reazioni alla sentenza dell’Unione europea -che impone l’equiparazione dell’età minima della pensione delle donne a quella degli uomini nella Pubblica Amministrazione- sono state in minoranza di adesioni e in maggioranza di rigetto totale e a volte di sdegno.
Noi abbiamo pensato che forse era più utile entrare nel merito della questione, cercando di capire come la nuova mappa della vita delle donne e degli uomini -molto diversa dalla vecchia mappa segnata da tappe precise (studio, lavoro, famiglia, pensione)- potesse interagire con il sistema di welfare.
Quando dico "noi” parlo di Anna Ponzellini, Anna Soru ed io, ma inizialmente il gruppo di lavoro -molto più allargato- era nato sotto l’egida della Consigliera di Pari Opportunità della Provincia Arianna Censi.
Prima di presentarla oggi, l’abbiamo discussa con alcuni esperti e studiosi di welfare -Maurizio Ferrera, Chiara Saraceno, Elsa Fornero tra gli altri- che ci hanno incoraggiato a renderla pubblica.
Abbiamo voluto cogliere questa occasione più che per proporre uno scambio, per porre un forte fuoco d’attenzione sul fatto che nel nostro Paese la legislazione sui lavori delle donne (lavoro per il mercato e lavoro di cura) è ancora singolarmente arretrata, in particolare per le giovani donne che oggi entrano nel mercato del lavoro in modo discontinuo, atipico, con scarse tutele soprattutto per quanto riguarda maternità e congedi parentali.
Ma la proposta è rivolta a tutti coloro che prestano lavoro di cura, donne e uomini.
E’ da sempre in atto in Italia una gigantesca rimozione del lavoro di cura. E’ invisibile nella quotidianità (non visto prima ancora di non essere riconosciuto) ed è invisibile nell’economia del nostro paese. Eppure ormai tutti gli economisti concordano sul fatto che se tutte le attività domestiche tradizionalmente definite come "lavori da donna” fossero conteggiate usando gli stessi criteri del lavoro per il mercato, diventerebbero il settore produttivo terziario più rilevante del mondo dal punto di vista economico.
Ma che cosa significa cura, prendersi cura di?
Possiamo considerare la cura dal punto di vista dell’insieme delle azioni che la compongono (azioni simboliche e azioni materiali) e quindi far emergere il valore del lavoro di riproduzione non pagato, come appunto stanno facendo gli economisti. E qui il problema è la mancanza di simbolico. E’ il simbolico che dà dignità al lavoro di cura, che dà la misura, quella misura che manca quando il fare resta muto e non riconosciuto, privato.
Possiamo considerare la cura dal punto di vista della temporalità (in genere quando si parla di tempi sociali, si parla di tre tempi: il tempo della produzione, il tempo della riproduzione di sé, il tempo libero. E il tempo della cura?).
Possiamo considerare la cura dal punto di vista della spazialità. Il dentro e il fuori, il privato e il pubblico. Oggi i confini sono diventati porosi, confusi, instabili.
Ma noi vorremmo considerare il concetto di cura come relazione, come necessità di reciprocità tra dentro e fuori.
E’ questo il percorso seguito da M. Nussbaum, che, facendo propria la tesi secondo cui la pratica di cura è un’attività umana irrinunciabile, propone che su di essa venga rifondata ogni teoria etica della cittadinanza.
Allora tema del discorso è come l’essenzialità della cura, il suo valore irrinunciabile si possa trasformare in politiche, cioè possa entrare nella polis. Se il lavoro di cura diventa sempre più indispensabile nelle nostre società per come oggi sono strutturate e definite, la politica sociale e il sistema di welfare dovrebbero appunto esercitarsi alla cura, partendo dai suoi presupposti fondamentali: il riconoscimento della dipendenza e il riconoscimento della risposta alla dipendenza. E quindi non è un problema individuale delle famiglie -o dei soggetti tradizionalmente delegati alla cu ...[continua]
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