Allora era ancora tempo di boom economico. Il governo militare del generale Medici era agli sgoccioli ma ancora garantiva ordine con le gendarmerie e pace sociale con gli squadroni della morte. Gli Usa finanziavano il “miracolo” del sub-imperialismo brasiliano, le multinazionali investivano, l’inflazione scendeva dal 140 al 20%. Il tasso di sviluppo era al 10%. Le “favelas” stavano sparendo e qualche baraccamento residuale veniva conservato per esigenze di contorni pittoreschi.
L’orgoglio nazionale si nutriva di progetti titanici, di cui si nascondeva la portata distruttiva, come quello della Transamazonica.
Che mi importava di tutto questo? Il mio Brasile 1974 era fatto di mare e di “vitaminas” (frullati di frutta) per compensare i logoramenti di intense notti tropicali.
Me ne andai col proposito di ritornare e forse di rimanere.
Quando ci torno, nel 1983, sono più vecchio e non ho alcun proposito. E incontro l’altra faccia del Brasile.
Anche la cornice è assai diversa. La baia di Rio pullula di graticci metallici e di trivelle che tormentano inutilmente i fondali alla ricerca di un inesistente petrolio sottomarino. Il mare è tutto inquinato e le spume delle risacche sugli arenili vengono spente ed assorbite da una graveolente polpa vischiosa.
Le “favelas”, escrescendo in una incontenibile metastasi, avvolgono i parchi dei grattacieli di lusso. Tutte le grandi città (Rio, Sao Paulo, Salvador, Belo Horizonte) sono assediate dagli accampamenti di latta e cartone di un esercito minaccioso di disperati. Ovunque il salmastro delle marine e l’aroma delle vegetazioni viene sgradevolmente miscelato all’odore di alcool bruciato, quello della benzina ricavata dalla canna da zucchero che spinge a 60 Km. all’ora automezzi balzellanti e scoppiettanti.
Banche chiuse, quartieri residenziali abbandonati, palazzi sontuosi mai abitati che stanno sgranandosi sotto gli acidi di un velenoso cielo tropicale. Il sole non è più quello: filtra attraverso una nebbiolina di smog che staziona perennemente e smorza voci e colori.
E’ il Brasile in crisi della quasi riconquistata democrazia. Le multinazionali, dopo avere razziato quanto potevano, smontano gli impianti e vanno a cercare altrove regimi stabili e mano d’opera a costi bloccati. I poveri di sempre, trasformati in turbe fameliche, fondono la loro disperazione con quella dei ceti medi rovinati e dei ricchi falliti.
Si diffonde un profondo rancore anti Usa: “L’America siamo noi!”. Si rivendica una falsa primogenitura, che dimentica lo sterminio degli indios, e si esalta una fittizia integrazione razziale. In realtà qui tutti aspirano all’”imbianchimento” e vale ancora l’antico proverbio: “La bianca per sposare, la mulatta per fottere, la negra per lavorare”. Gli stessi “caboclos” (meticci europeo-indiani) vengono rinchiusi in un ghetto di umiliazione.
Camminiamo per strade invase da torme di mendicanti, premendo la mano sulla tasca del portafogli. Siamo tutti ricchissimi, noi: un’inflazione galoppante oltre la soglia del 180% aumenta quotidianamente il valore dei nostri dollari. Cambiando valuta da un giorno all’altro potremmo fermarci qui a tempo indeterminato.
E tuttavia c’è ancora aria di festa in giro: musica e football, profusi senza risparmio, confondono nello stordimento di sbornie prolungate le contrazioni dello stomaco vuoto.
L’imponenza delle cateratte di Rio Iguaçù non riesce ad impressionarmi. Passeggiare di lato su passerelle di cemento, al riparo di barriere protettive e stazionando su terrazzi di osservazione, elimina la sensazione di annichilimento, fra sgomento e stupefazione, cui dovette soggiacere chi le vide per la prima volta: una selvaggia libera natura capace di creare una ...[continua]
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