Perché noi stiamo sostenendo l’Ucraina? Un amico mi ha sfidato a trovare una risposta a questa domanda, dove l’enfasi cade sul “noi”. Perché, insomma, proprio noi, liberali e democratici, stiamo sostenendo l’aiuto militare statunitense all’Ucraina? Perché, esattamente?

Lasciamo pur da parte le motivazioni di (alcuni) oppositori di sinistra agli aiuti militari: secondo loro, gli Stati Uniti ambiscono a indebolire la Russia per rafforzare l’egemonia statunitense, vogliono testare i propri armamenti e dunque cercano nuove scuse per incrementare gli stanziamenti militari. Sono convinto che a Washington ci siano figure che sono davvero motivate da questi ragionamenti, ma so che non sono loro a indirizzare l’impegno americano -e certo non il “nostro”. Quegli oppositori di sinistra, inoltre, non riescono a spiegare la profondità del sostegno ricevuto dagli ucraini sia negli Stati Uniti sia in Europa, né la rabbia che in tanti provano nei confronti di coloro che sarebbero pronti ad abbandonare Kiev o a imporre a quel paese una pace degna degli accordi di Monaco, quelli che nel 1938 concessero alla Germania intere porzioni della Cecoslovacchia.
Le ragioni che spesso vengono offerte alla domanda del mio amico sono di tipo legale e morale: stiamo sostenendo l’Ucraina per sconfiggere un aggressore e per difendere la sovranità ucraina e la sua nuovissima democrazia. Due ragionamenti che in realtà sono le facce di un’unica motivazione, dal momento che l’aggressione russa minaccia al contempo la sovranità e la democrazia e ambisce a costituire in Ucraina un regime satellite fondato sul vecchio modello sovietico, o la sua trasformazione in una provincia dell’impero russo assimilabile a quegli stati fantoccio di epoca zarista. Certo, i liberal democratici sognano un mondo in cui gli ucraini possano essere liberi di decidere da sé la propria vita politica. Quindi ci impegniamo per questo “ordine mondiale liberale” - un buon impegno, una specie di nuovo “gold standard”, ma ancora troppo astratto per giustificare questa nostra passione.
Prendiamo ora in analisi un diverso, più importante, argomento contro il sostegno all’Ucraina: questo paese appartiene alla “sfera d’influenza” dei russi. Questa è la posizione dei sedicenti “realisti” che danno la colpa dell’invasione del 2022 all’espansione della Nato in quella che sarebbe dovuta rimanere una sfera russa. La mia risposta, qui, è che l’idea delle sfere d’influenza è pessima, persino nel “mondo dei realisti” -e questo mi porta a introdurre un argomento più ampio e cioè che il vero motivo per cui i democratici liberali dovrebbero sostenere l’Ucraina, il motivo per cui la sostengo io e la sostiene il mio amico, è la solidarietà democratica.
I realisti odiano quella che definiscono “moralizzazione”, ma nondimeno insistono nel dire che la loro argomentazione delle “sfere d’influenza” si fonderebbe sull’importanza della pace internazionale -cosa che, indubbiamente, costituisce un’argomentazione morale, per quanto appartenga a una varietà di morale particolarmente severa, dato il prezzo che molti realisti si dicono essere pronti a pagare. La loro argomentazione principale è che le grandi potenze, in nome della pace, dovrebbero avere il diritto di conservare nei paesi confinanti delle sfere di influenza, cosa che poi finisce per giustificare un controllo politico. A loro dire, l’ordine mondiale si può conseguire meglio riconoscendo ai grandi paesi questa prerogativa -cosa che poi produce una divisione globale tra i detentori dello status di superportenza. Gli accordi di Yalta, stipulati alla fine della Seconda guerra mondiale, costituiscono il miglior esempio di questo tipo di divisione globale sostenuta un tempo (e, forse, tutt’ora) dagli ammiratori di sinistra e dai cronisti dell’Unione Sovietica (quel­l’Unione Sovietica che come “sfera d’influenza” ricevette in dote gran parte dell’Europa orientale).
Gli accordi di Yalta erano effettivamente di stampo realista; riconoscevano cioè che l’Armata rossa occupava già mezza Europa, per cui non c’era altro modo pacifico di indurre una ritirata sovietica. L’esempio di Yalta ci offre un esempio vivido del tipo di prezzo richiesto dal realismo, prezzo che poi sono stati i popoli dell’Est Europa a pagare ricevendo in cambio la brutalità, la corruzione e l’incompetenza dei regimi autoritari instaurati dai sovietici nella loro sfera. D’altra parte in che altro modo, se non con il governo autoritario, si potrebbe mai mantenere il controllo su una sfera d’influenza? Pensiamo ora alle sfere statunitensi nell’America centrale, altra zona del mondo caratterizzata da un autoritarismo brutale, corrotto e incompetente. Dal momento che i cittadini delle nazioni soggette a queste grandi zone di influenza saranno sempre intenzionati ad autodeterminare il proprio destino, i realisti dovranno sempre opporvisi, così facendo opponendosi anche alla democrazia. È per questo che i democratici devono essere pronti a opporsi al realismo.  
Riconosco che furono gli accordi di Yalta (anche se un ruolo più importante lo ebbe lo stallo nucleare che ne seguì) a rendere “fredda” la Guerra fredda, portando così a una sorta di stabilità globale. Ma vi furono anche anni caldi nelle periferie della sfera sovietica, con conseguenti continue ribellioni e dure repressioni. Quando poi dall’Unione Sovietica emerse una Russia democratica (o meglio, semi-democratica), i suoi nuovi leader si ritirarono dalle loro storiche sfere d’influenza, abbandonarono gli stati-satellite, consentendo che vi si formassero stati indipendenti. L’invasione dell’Ucraina, tre decenni dopo, costituisce da parte russa uno sforzo irredentista per invertire quel processo democratico e rivendicare la propria sfera.
Come avessero previsto questo irredentismo, i neo-liberati paesi dell’Europa dell’Est avevano cercato una protezione da un ritorno dei russi e così si erano dati da fare per aderire alla Nato. Contrariamente a quanto credono alcuni a sinistra e la maggior parte dei realisti, l’espansionismo Nato non era, o per meglio dire non era solo, dovuto a velleità imperialiste o a un grande progetto di potenza. Era più una volontà di ritirarsi dall’Est, che un’attrazione esercitata dall’Occidente.
Nè la Nato ha mai costituito una sfera di influenza americana; a riprova di ciò si consideri la differenza tra la vita politica sotto il Patto di Varsavia e quella entro la Nato. Come dimostra anche la recente adesione di Finlandia e Svezia, la Nato è un’alleanza volontaria di stati veramente indipendenti.
Costringere l’Ucraina entro la sfera russa contro il volere democratico del suo popolo non produrrebbe alcuna pace sostenibile, e questo per gli stessi motivi che resero gli accordi di Monaco un fallimento del realismo. Putin non è certo Stalin, ma i suoi piani per l’Ucraina sono forse altrettanto brutali di quelli di Stalin ai tempi della grande carestia degli anni Trenta. Mi domando se gli attuali sostenitori delle sfere di interesse delle grandi potenze siano disposti a tollerare che Mosca abolisca la democrazia ucraina, assassini i suoi leader e le sue forze di difesa e che trasformi a forza gli ucraini in russi riluttanti restando a guardare e senza far nulla a riguardo. I vicini dell’Ucraina finirebbero per cercare, timorosi, l’assistenza della Nato. Proprio non riesco a immaginare che questo possa essere un ordine globale auspicato o promosso da chicchessia. È il mondo reale a respingerlo.
Certo, nessuno che si professi fautore della democrazia potrebbe mai accettare un equilibrio di quel tipo. I democratici non possono certo vivere in “sfere”, che siano russe, americane o cinesi, dal momento che quegli spazi politici non consentono un vero processo democratico.
Quegli spazi sono condannati, ovunque, a vivere in condizioni di autoritarismo e oppressione e, presto o tardi, i suoi cittadini sono destinati a sollevarsi e ribellarsi. Quei ribelli, poi, si troveranno a cercare il sostegno dei democratici di tutto il mondo. Hanno, in effetti, qualcosa da rivendicare nei nostri confronti: cercherò ora di spiegare cosa.

L’influenza è, naturalmente, una parte naturale della vita politica. Ogni partito politico, movimento sociale o stato ambisce a essere influente. C’è un passaggio degli scritti del giovane Marx che spiega come dovremmo immaginare il concetto di influenza. Prendiamo, scrive Marx, il mondo delle “relazioni umane”, in cui “l’amore può essere scambiato con l’amore, la fiducia con la fiducia […]. Se vuoi godere dell’arte, devi fare studi artistici; se vuoi influenzare le altre persone, devi produrre nelle altre persone un effetto stimolante e incoraggiante”. Questo argomento non si applica solo agli individui, ma anche ai partiti, ai movimenti sociali e agli stati sovrani. Se gli Stati Uniti vogliono esercitare un’influenza sull’America centrale, devono essere stimolanti e incoraggianti; vale a dire che devono fornire aiuti materiali ed essere ideologicamente persuasivi. La coercizione, la manipolazione e la sovversione sono pratiche da escludere. Questo vale anche per la Russia.
Un ordine globale contraddistinto da quelle “relazioni umane” difese da Marx sarebbe certamente liberale, a differenza del mondo in cui viviamo. Cosa più importante, sarebbe democratico: una società di nazioni che si auto-determinano e si riconoscono vicendevolmente il diritto all’auto-determinazione, un mondo senza tirannia - il mondo a cui aspiriamo. I governi democratici, per come si presentano in ciascuno stato del globo, offrono una via alla stabilità e alla pace ben più applicabile al mondo reale di quanto non sia il concetto delle sfere di influenza delle superpotenze. Inoltre, sono in grado di fornire agli esseri umani, ovunque essi siano, la preziosa esperienza della cittadinanza, fatta di uguaglianza innanzi alla legge, impegno politico, libertà di espressione, mutuo aiuto e quell’orgoglio che deriva da queste caratteristiche.
Storicamente, le persone che già godevano dei frutti della cittadinanza democratica sono spesso state pronte ad aiutare coloro che vivevano in regimi autoritari ed erano intenti a lottare per la democrazia. Molti americani, nei primi tempi della Repubblica, erano impazienti di aiutare i rivoluzionari latino-americani, e dopo le rivoluzioni del 1848 in Europa, i democratici di Jackson avevano invocato un aiuto materiale e diplomatico a quei “quarantottini”. Quando, nel 1852, Lajos Kossuth, leader ungherese in esilio, visitò gli Usa, venne accolto dal Segretario di Stato Daniel Webster e fu osannato da folle entusiaste ovunque si recasse. “The Democratic Review”, rivista jacksoniana di New York, scrisse di come gli americani fossero pronti a offrirsi volontari per combattere in Europa “al fianco della libertà”, nel caso i rivoluzionari sconfitti fossero riusciti a rinnovare la propria battaglia.
La stessa rivista aveva sostenuto la necessità di aumentare il budget per la Marina, così che gli Stati Uniti avrebbero potuto, in caso di bisogno, fornire aiuto militare ai democratici in difficoltà dall’altra parte dell’oceano.
Il lettore non avrà difficoltà a ricordare altri esempi più recenti di solidarietà democratica: la campagna di sostegno alla Spagna repubblicana promossa dai liberali e dai democratici di sinistra di tutta Europa e degli Stati Uniti, l’opposizione agli accordi di Monaco, l’appoggio alla “Legge degli affitti e prestiti” che riforniva la Gran Bretagna nel corso della Seconda guerra mondiale, il sostegno offerto ai dissidenti dell’Est Europa negli anni del dominio sovietico, la lotta al razzismo in Sudafrica, la creazione di un “comitato d’emergenza” per sostenere i democratici curdi in Siria e accogliere uomini e donne costretti a fuggire dai regimi oppressivi, e per diffondere le loro storie.
Chi si impegna a sostenere i democratici di tutto il mondo insiste nell’affermare di sentire l’obbligo di aiutare. Che tipo di obbligo è? Pensiamo al dovere morale di uomini e donne in condizioni materiali di vantaggio che vogliono aiutare i più bisognosi, specialmente quelli in condizioni disperate.
Gli obblighi che derivano dalla democrazia possono essere compresi per analogia: i governi autoritari generano un enorme bisogno di democrazia, e tutti gli uomini e le donne in condizioni privilegiate, che già godono dei benefici della democrazia, sono tenuti ad aiutare. Quando dico “aiutare” intendo in ogni maniera possibile, non soltanto nel cercare di condizionare la politica estera dei nostri stati democratici, ma anche con organizzazioni indipendenti e mediante l’impegno personale. I nostri partiti politici e i nostri sindacati dovrebbero entrare in contatto con i partiti e i sindacati dei paesi ove la democrazia è a rischio o è del tutto assente, offrire loro stimoli materiali e ideologici, o semplici incoraggiamenti; puntare, insomma, a essere influenti.
Questo almeno era il programma politico degli internazionalisti socialisti ormai tanto tempo fa. In questo momento, data la minaccia rappresentata dai demagoghi autoritari del mondo, bisogna recuperare quella modalità e trasformarla nell’internazionalismo democratico.
Si può aiutare anche a livello personale. Se si viaggia in uno di quei paesi dove i cittadini sono oppressi e lottano per la democrazia, o se veniamo invitati a una conferenza, o a insegnare, o se ci offriamo volontari per aiutare in un ospedale o in una scuola, dovremmo parlare dei valori democratici ogni qualvolta è possibile; incontrare e stringere le mani dei democratici del posto, in particolare di coloro che sono nel mirino delle autorità. “Tutti gli americani -ha proclamato la “Democratic review”- dovrebbero essere propagandisti della Repubblica”. I docenti occidentali che sono andati a insegnare nelle università clandestine di paesi come l’Ungheria o la Cecoslovacchia negli anni Sessanta e Settanta stavano di fatto svolgendo il loro dovere democratico. Questo vale anche per quegli occidentali che oggi si recano in Ucraina: penso ai volontari negli ospedali, o a chi assiste le famiglie sfollate, ma anche a chi si unisce ai combattimenti.
L’azione degli stati a sostegno della democrazia è più difficile da spiegare. Non voglio certo sostenere il cambio forzato di regime -tranne nel caso del periodo seguente a una grande guerra internazionale, come la Seconda guerra mondiale, quando gli alleati occidentali, giustamente, imposero la creazione di governi democratici in Germania Ovest e in Giappone. In tempi più normali, gli argomenti di John Stuart Mill contro l’intervento militare sono ancora convincenti: la democrazia dev’essere un prodotto locale. Cionondimeno, gli stati possono fare molto per promuovere la democrazia al di fuori dei propri confini proprio esercitando quell’influenza descritta da Marx, e cioè sostenendo politicamente, moralmente e materialmente gli sforzi delle forze democratiche in lotta. Questa è la solidarietà democratica.
Immaginate di avere un amico costretto a combattere un’ingiustizia che lo affligge e che vi chiedesse aiuto, sapendo che anche voi condividete quei valori democratici sui quali anche lui fonda il proprio impegno. Immaginate ora che quell’amico sia vittima di un governo tirannico; ebbene, i democratici di quei paesi sono quel tipo di amico, per i quali offrire un aiuto è un fatto dovuto.
Se uno stato democratico è vittima di un’aggressione -e cioè se è la stessa democrazia a essere oggetto di un’aggressione armata- dobbiamo sostenerlo con un tipo di influenza più concreta: con soldi, rifornimenti, addestramento e, pur sempre nei limiti della prudenza, con un impegno energico. Questo è il tipo di sostegno che Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti rifiutarono alla Repubblica spagnola quando fu invasa dall’esercito di Franco: un esempio negativo per rafforzare una posizione positiva. Anche allora l’aiuto era dovuto. Dirò di più: quella neutralità, nel 1936, fu il frutto di una stupida considerazione geopolitica, il fallimento nel riconoscere ciò che richiedeva il diritto internazionale e, nei fatti, un crimine morale. Per coloro, come me, che sono cresciuti ascoltando le storie e le canzoni del tempo della guerra civile spagnola, fu un crimine che ancora aleggia nelle nostre menti.
L’Unione Sovietica intervenne in Spagna nel perseguimento dei propri interessi geopolitici, sfruttando l’idealismo delle giovani donne e uomini che si erano uniti alle Brigate internazionali, ma senza dedicare alcun impegno agli ideali democratici iberici. Stalin sperava di costituirvi uno stato satellite, proprio come lo auspicavano gli altri stati intervenuti, le antidemocratiche Italia e Germania.
L’Ucraina è la Spagna del nostro tempo, rappresenta cioè una sfida analoga per gli individui e gli stati democratici odierni. È al contempo una vecchia nazione e un nuovo stato, indipendente da appena tre decadi, con una storia nazionalista che certo non l’ha mai indirizzata verso la democrazia. È uscita trasformata dalla rivolta popolare nel 2014 che aveva preso di mira il governo corrotto filo-russo. In seguito ci fu una tornata elettorale da cui i nazionalisti e gli ammiratori dell’autoritarismo di stampo russo uscirono decisamente sconfitti e Volodymyr Zelensky, un uomo che da solo rappresenta due minoranze ucraine -i russofoni e gli ebrei- fu eletto presidente. Si trattò di un trionfo della democrazia e dell’autodeterminazione, cosa che l’invasione di Putin puntava a sovvertire. Quell’invasione ha prodotto invece un forte spirito popolare di resistenza, cosa che certo ha una dimensione nazionalista a livello emotivo, ma che è anche una lotta democratica perché quello che gli ucraini stanno difendendo è lo stato democratico da loro creato.
Cosa accadrà qualora la guerra finisse in una situazione di stallo? Oggi vediamo persone che non combattono per l’idea delle sfere d’influenza, né amano l’autoritarismo e però sono preoccupate per una guerra che comporta enormi costi umani e che non appare ricomponibile. Non sarebbe meglio per gli Usa avviare negoziati con i russi -o, meglio ancora, esercitare pressioni sull’Ucraina affinché acconsenta a questi negoziati? Dopo tutto, gli Stati Uniti hanno una certa “influenza” su Kiev, una moneta che forse è giunto il momento di spendere. L’obiettivo più spesso menzionato è quello di un cessate-il-fuoco “alla coreana”, che lascerebbe alla Russia il controllo di grandi porzioni del territorio ucraino senza un riconoscimento ufficiale della legittimità di quel controllo. In cambio del territorio perduto, l’Ucraina otterrebbe una sorta di garanzia di sicurezza da parte degli Stati Uniti (ma non, probabilmente, l’adesione alla Nato).
Pur trattandosi di argomentazioni plausibili, ritengo siano errate e certamente premature. È al momento ancora necessario sul piano morale che le decisioni chiave sul come e per quanto combattere restino prerogative ucraine, e su questo i democratici di ogni parte del mondo dovrebbero insistere. Neppure gli ingenti aiuti militari già erogati conferiscono agli Stati Uniti il diritto di assumere decisioni di vita e di morte riguardanti il destino degli ucraini. Ciò che la solidarietà democratica ci impone di fare ora, e lo impone anche al nostro paese, è di rispettare l’autonomia, la libertà e la volontà del popolo ucraino. Sono in grado di immaginare un momento più disperato in cui questo obbligo potrebbe svanire, ma non ci siamo ancora arrivati.
Sono tutte, comunque, decisioni che riguardano gli Stati Uniti e la Nato, e al momento mi pare che entrambi si stiano comportando nel modo giusto, o per lo più giusto, offrendo un equilibrato mix di sostegno militare e prudenza. Ma si tratta di un giudizio da rivalutare di settimana e in settimana e, comunque, questa non è competenza dei teorici politici che amano la democrazia. Il nostro compito è valutare il modo nel quale si comportano gli alleati e cercare di spiegare loro perché dovrebbero comportarsi in un certo modo. Gli stati democratici, le persone impegnate per la causa della democrazia, io e il mio amico -tutti noi stiamo con l’Ucraina perché il suo popolo ha deciso in modo collettivo e a livello individuale che, anche di fronte a un’aggressione brutale, è giusto combattere per il proprio paese e la sua democrazia. Questo significa che la loro Ucraina è anche nostra, che siamo parte di un consesso democratico internazionale.
(traduzione di Stefano Ignone)