Michael Walzer, filosofo politico, professore emerito dell’Institute for Advanced Study di Princeton, è stato condirettore per più di trent’anni della rivista “Dissent”, con cui tuttora collabora. L’intervista è stata registrata il 23 febbraio 2022, alla vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina.

Il tema dell’intervista doveva essere la situazione della democrazia negli Stati Uniti, ma proprio ieri la Russia ha annunciato di voler invadere l’Ucraina...
Qui è scoppiato un dibattito politico, in cui è emersa questa strana combinazione tra una parte della sinistra che ha assunto posizioni filorusse (nello stesso modo in cui un tempo erano filosovietici), e una parte della destra, i realisti duri e puri a cui non importa nulla dell’Europa dell’Est, e oggi si trovano dalla stessa parte, si citano a vicenda.
La Dsa, Democratic Socialists of America, di cui un tempo facevo parte, ha cominciato a diffondere documenti sull’Ucraina che ricordano quelli del Fronte popolare degli anni Trenta e Quaranta. Prendono tutto ciò che dice Putin e lo ripetono. Non ho simpatia per questo tipo di sinistra. Continua poi a sorprendermi questo assoluto disinteresse verso le popolazioni dell’Europa dell’Est.
Comunque, sia nel centrosinistra che nel centrodestra mi sembra ci sia invece un certo accordo nel ritenere necessarie forti sanzioni, e però nessun intervento militare; nel mondo moderno non si interviene contro una potenza nucleare… La nuclearizzazione pone dei limiti e però rende anche possibile un’aggressione. Per cui, siamo davanti a un dibattito articolato. Ieri sono rimasto molto colpito dalla risposta tedesca. Mettere fine al progetto del gasdotto è stata una mossa molto incisiva, qualcosa di cui in passato si esitava anche solo a parlare; credo che, se paragonata alla risposta europea e a quella statunitense, sia stata la misura più forte.
Non sono sicuro di che effetto possa aver avuto fin qui la reazione statunitense, anche se ve ne saranno altre, né ho un’idea di quanto sia spregiudicato Putin. Pensavo fosse un leader relativamente cauto, per il modo in cui era intervenuto in Siria. Intendiamoci, non mi era piaciuto, ma in quella circostanza aveva agito con una certa intelligenza, con cautela. Qui sembra tutto diverso. Spero ci sia un forte impegno euro-americano, che deve essere compiuto insieme. Ho sentito parlare di una certa riluttanza italiana…
Sì, perché ci troviamo in una situazione di dipendenza, per via del gas, e in un primo momento i partiti di destra hanno esitato a prendere posizione…
Ho letto di gas disponibile anche in Israele e Libano, ci sono giacimenti aperti da questi due paesi che potrebbero essere usati per alleviare le sanzioni russe che arriveranno sull’Europa; spero sia una possibilità concreta.
Personalmente non simpatizzo con chi, a sinistra, va dicendo che è tutta colpa dell’aggressività della Nato, della sua espansione. A tale espansione si erano opposti alcuni cosiddetti realisti, incluso George Kennan, il grande politologo americano teorico della politica del contenimento, e della politica realista… Forse potevano avere ragione una volta, ma la verità è che l’espansione della Nato in questi ultimi anni è stata più tirata (pull) che spinta (push), per così dire. Voglio dire che i paesi dell’Europa dell’Est, dopo aver subìto l’autoritarismo sovietico per anni, hanno cercato una protezione dall’Occidente. Era una richiesta, non una specie di ambizione occidentale.
È anche importante ricordare che l’Unione Sovietica fu attaccata da Occidente nel ‘41, ma che dopo il ‘45 ricevette da Churchill e Roosevelt una zona cuscinetto; in sostanza disegnarono una riga sulla cartina e diedero l’Europa dell’Est alla Russia, che poi ne avrebbe fatto uno sfacelo provocando una diffusa resistenza in tutta l’Europa orientale. Insomma, bisognerebbe ricordare anche questa parte della storia.
In questi giorni mi scopro sempre più europeista. Davvero vorrei vedere una forte risposta europea, che non si limiti a sostenere quella statunitense, ma che sia capace anche di trascinare l’America, se necessario.
Non è chiaro, come hai detto prima, se le sanzioni si riveleranno utili, se produrranno qualche risultato… L’Unione Europea è dotata solo di soft power, di forza politico-economica, ma non ha una vera potenza militare. Per cui, se le sanzioni non saranno sufficienti, cosa si può fare? Qualcuno ha evocato lo spirito di Monaco…
Nel 1938 si poteva discutere dell’opportunità di una guerra per fermare i nazisti. Ma una guerra per fermare i russi? Certo è possibile per gli ucraini, ma non è una possibilità né per l’Ue, né per la Nato, né per alcuno a Occidente. Se ci sarà un’invasione in piena regola, bisognerà rafforzare le sanzioni, e dovranno essere le più dure possibili, e alla fine gli ucraini dovranno lottare per la propria indipendenza. Sospetto che, anche se all’inizio potrà sembrare che gli ucraini non ce la facciano, in realtà un’invasione russa finirà per produrre una lunga e tenace resistenza, come già si è visto in Afghanistan; qualcosa che avrà dei costi molto alti per la Russia. Non credo che nel lungo periodo Putin sarà in grado di vincere. Ultimamente non mi è capitato spesso di avere pensieri ottimistici, ma riguardo all’Ucraina sono un ottimista di lungo periodo. Certo il prezzo da pagare sarà alto per gli ucraini, ma lo sarà altrettanto per i russi.
C’è chi ritiene che Putin abbia fatto male i conti circa quello che potrebbe accadere…
Credo che contasse su una maggiore divisione nelle fila della Nato e dell’Unione europea, e forse immaginava che gli ucraini si rivelassero meno duri. D’altra parte questa è una crisi che si trascina dal 2014...
Come si potrà sostenere il popolo ucraino? Non potremo lasciarli soli; in una delle ultime interviste fatte con te abbiamo parlato dell’internazionalismo democratico…
Si può innanzitutto fornire sostegno militare, specialmente difensivo; quel tipo di armamenti che servono per portare avanti una guerriglia... certo se comincia una guerra vera, l’Occidente può fornire sostegno morale, politico e diplomatico, e ovviamente rifornimenti militari; ma non potrà impegnarsi direttamente militarmente.
Forse quello di cui abbiamo bisogno è un po’ quello che produsse l’Internazionale comunista nel 1936 per la Spagna, una brigata internazionale che si unisca all’esercito ucraino. Potrebbero effettivamente esserci dei volontari pronti a partire per quel fronte.
Tu hai scritto e riflettuto molto sulle guerre giuste e ingiuste. Qui però hai subito chiarito che non si può pensare a un intervento militare contro una potenza nucleare. E quindi?
Uno dei fondamenti delle teorie delle guerre giuste è che bisogna fare dei calcoli di proporzionalità: quali sono i possibili benefici della guerra, quali i costi, quali i rischi e le loro probabilità… Al momento, calcoli del genere ci porterebbero a concludere che va evitato un confronto militare diretto tra potenze nucleari. Va detto chiaramente che l’aggressione russa è ingiusta. Il dibattito attuale si è concentrato sul diritto internazionale, parlando di un’azione illegale, illegittima, ma è importante dire che è anche ingiustificata, che non c’è nulla di vero nella pretesa di Putin che la Russia sia minacciata dalla Nato.
Per il resto, ho notato che i teorici della guerra giusta non vengono citati. Una volta ho scritto un articolo intitolato “Del trionfo della teoria della guerra giusta e dei pericoli del suo successo”.
All’epoca dell’Iraq, il presidente Bush aveva fatto proprio il linguaggio della teoria delle guerre giuste per giustificare guerre che noi ritenevamo ingiuste. Ma il linguaggio della guerra giusta non sembra tornato in voga, al momento; l’Occidente usa il lessico del diritto internazionale, che è importante, e Putin usa quello della doglianza nazionalista.
A tratti mi ricorda la situazione della Germania dopo la Prima guerra mondiale, quando il paese riteneva di essere stato trattato ingiustamente dai trattati e c’era molto risentimento e rabbia. Così Putin ritiene che sia successo nel 1989, 1990, 1991, anni di sconfitta, in cui l’Occidente si sarebbe spinto troppo oltre, approfittando della situazione.
Dovremmo parlare di giustizia? Non sembra un discorso forte, politicamente, ora. Che dire? Sarebbe una cosa buona che l’aggressione russa venisse universalmente condannata; più se ne parla, sia sul piano legale che sul piano morale, meglio è.
Anche la reazione della Cina sarà importante...
Sì, anche perché Taiwan è una possibile Ucraina del Pacifico… Credo che quell’accordo con Taiwan sia stabile, l’Occidente può sostenere Taiwan come ha fatto finora, incluso l’aiuto umanitario, ma senza riconoscerlo come stato sovrano, che è dove la Cina ha messo la linea rossa da non oltrepassare. Sembra ci sia questo accordo. Ma la repressione dei musulmani e quanto accaduto a Hong Kong sembrano indicare che la Cina potrebbe attraversare una fase analoga a quella attuale di Putin e la Russia in cui si sentirà abbastanza forte da diventare più aggressiva di quanto non sia stata finora. Non saprei. Certo presteranno molta attenzione a quanto accadrà in Ucraina.
Ora sembra che anche la Svezia e la Finlandia, la stessa Finlandia da cui viene il termine finlandizzazione, siano pronte a entrare a far parte della Nato…
Bisogna ricordare cos’è successo alla Finlandia: nel ‘39 decisero di ingaggiare una guerra senza speranze di vittoria contro l’Unione Sovietica, e proprio per il fatto di aver combattuto così strenuamente (anche se perdettero) non sono mai divenuti un satellite dell’Unione Sovietica, così come invece è successo ad altri paesi dell’Europa orientale. L’Ucraina dovrebbe fare tesoro di questa pagina di storia.
Parliamo della crisi della democrazia americana. Come vedi quella situazione?
Anche se in generale sono un po’ pessimista circa lo stato della politica americana, vedo qualche segnale positivo. È probabile che i repubblicani riconquisteranno il Congresso, nel prossimo novembre, ma ora ciò appare meno sicuro di quanto non sembrasse un mese o due fa. Per via delle divisioni tra i repubblicani, e perché l’economia mostra chiari segnali di ripresa: la disoccupazione è crollata, oggi le persone riescono a trovare lavoro negli Stati Uniti, i salari sono saliti perché c’è una carenza di forza-lavoro, l’inflazione è un pericolo politico ancor prima che economico oggi e una guerra in Ucraina porterà a una forte inflazione in Europa e negli Stati Uniti. Questo è un pericolo reale. Ma al momento sembra -o almeno sembrava, prima della crisi ucraina- che a novembre l’economia potrebbe essere in buono stato, e questo aiuterebbe i democratici. Se poi non ci sarà un’altra ondata di Covid, nel numero dei contagiati e dei morti, anche questo potrebbe aiutare il partito al governo, i democratici. Per quanto riguarda i repubblicani, sta cominciando a emergere un’opposizione repubblicana a Trump; per la maggior parte si tratta di politici a mio modo di vedere ben poco ammirevoli, se non per il fatto che vogliono sostituire Trump! Il partito repubblicano si è ulteriormente spostato a destra, ma ora si inizia a riconoscere una destra repubblicana a-trumpiana o non-trumpiana, e questo rappresenterà una sfida per i candidati trumpiani in molti stati prima delle prossime elezioni di novembre.
Per quanto riguarda i democratici, trovo che al momento siano un po’ troppo passivi al Congresso, e non capisco perché; sembra non vogliano proporre alla votazione temi dove rischiano di perdere. Invece dovrebbero osare, dovrebbero costringere i repubblicani a votare pubblicamente contro, per esempio, i sussidi e gli assegni famigliari, contro la cancellazione del debito studentesco; i democratici dovrebbero costringere i repubblicani a votare pubblicamente contro il disegno di legge “Build Back Better” [Ricostruire meglio], che nel paese gode di enorme sostegno. Davvero non capisco perché non lo stiano facendo. Forse man mano che le elezioni si avvicineranno, si faranno più aggressivi.
Ma per venire alla “grande domanda”, quella sulla democrazia americana; beh, c’è ora una grande fetta dell’elettorato americano che è del tutto disconnessa da quella che ritenevamo fosse la politica democratica convenzionale.
Ne sono disconnessi, in parte per colpa della disinformazione, delle teorie della cospirazione, ma anche per via di un profondo… non so come descriverlo, perché non esiste una spiegazione economica tradizionale: c’è una grande porzione della popolazione americana che sente di essere stata abbandonata dalle élite. E in gran parte si tratta della working class, persone che hanno perduto l’impiego in un’industria, che non hanno più quel tipo di stipendio, persone spinte a lavori marginali, o che hanno sì un lavoro, ma che non permette loro di vivere dignitosamente e si sentono svalutate, disprezzate nell’America di oggi. Sono i “deplorevoli”, i bifolchi, e questo riguarda gli abitanti della cintura industriale che va dalla Pennsylvania fino al Midwest settentrionale, dove tante industrie hanno dovuto chiudere, così come l’America rurale, arretrata, della Virginia occidentale, in parti del Sud… Uomini e donne che non solo sentono di star arretrando rispetto alle condizioni materiali di vita, ma che c’è stato uno sforzo deliberato per ridurre il loro status nella società americana, e questo a opera dell’élite democratica, alleata con le minoranze.
Proprio ieri all’Istituto di Studi Avanzati di Princeton abbiamo avuto un seminario con un antropologo che ha seguito la campagna di Trump come volontario; ha intervistato membri dei comitati pro-Trump e ne ha fatto un lavoro sul campo -certo, in una posizione contraddittoria! D’altra parte lui era ostile a Trump, ma voleva capire le persone che lo sostenevano, e perciò è andato casa per casa in Pennsylvania, che è nel cuore della Rust Belt, e ha incontrato disoccupati e persone con impieghi miseri, in gran parte uomini, e ci ha parlato. Ecco, quello su cui queste persone insistono è che non sono razzisti, non sono anti-immigrati (ma contrari agli immigrati clandestini); spesso sono loro stessi figli di immigrati, e però sono convinte di essere loro le vittime della società americana odierna, e che questa situazione sia un risultato deliberato, il frutto di una campagna condotta contro di loro.
È una sensazione molto profonda, una perdita direi quasi più culturale che economica. Una perdita di status. Non conosco il numero degli americani che si sono sentiti così, ma parliamo di un quarto, di un terzo, numeri molto alti, e molti di loro sono stati mobilitati da Trump.
C’è stato questo alla base della sua vittoria, perché molte di queste persone, in particolare nei piccoli centri urbani, nell’America rurale, erano politicamente passive, non votavano, non si impegnavano. È stato Trump a tirarli dentro, ed è questo che hanno detto all’antropologo che li intervistava: “Trump mi ha fatto sentire bene”, “Trump mi ha fatto sentire importante…”. L’antropologo ci ha anche detto che i dialoghi avuti con questa gente non erano conversazioni politiche, ma emotive, istintive, e io sinceramente non so come si può rispondere a una politica che fa leva su questi sentimenti.
Qui vedo una grave responsabilità dei democratici dell’era Clinton e dell’era Obama, che hanno creduto di poter vincere le elezioni contando su una saldatura tra la classe medio-alta e le minoranze, e che hanno voltato letteralmente le spalle alla working class urbana, hanno assistito al declino dei sindacati e non hanno fatto niente per arrestarlo. Forse è così anche in Europa, ma in America la sindacalizzazione è sempre dipesa dal sostegno del governo. La grossa espansione dei sindacati negli anni Trenta e negli anni Quaranta arrivò a seguito del Wagner Act, che rendeva possibile la sindacalizzazione, sosteneva i sindacati. Negli ultimi anni i democratici hanno abbandonato questo tipo di politiche. Ho l’impressione che in Biden ci sia il desiderio di ritornare indietro rispetto a queste scelte.
Il tuo giudizio sull’operato di Biden?
Come dicevo, credo ci sia questo spirito. Se si guarda al Build Back Better Bill, quello originale, vale una cifra vicina ai tre trilioni di dollari, e possiamo dire che è un programma socialdemocratico. Ora, certamente dovranno lottare per conquistarlo, magari un po’ più strenuamente di quanto non abbiano fatto finora, ma è il programma giusto. Non so se riuscirà rapidamente a riconquistare le persone che sono state lasciate indietro in quest’ondata emotiva, fatta di alienazione e risentimento, ma certo sarebbe il modo giusto per cominciare, per riavvicinarsi a quella classe lavoratrice che è sempre stata la base del partito democratico.
Credo che Biden ne sia convinto; non a caso ha messo parecchi funzionari di sinistra in posizioni importanti, parlo di quelli a nomina governativa, ma anche nel livello sub-ministeriale; non so dire se il gruppo che ha alla Casa Bianca sia abbastanza forte, o abbastanza di sinistra, non lo so. Molti infatti sono ancora ben connessi con il mondo degli affari e non hanno voglia di sfidare questi poteri.
Comunque resto convinto che, se l’economia sarà in buone condizioni e le morti e le ospedalizzazioni da Covid rimarranno sotto controllo,  una campagna democratica energica potrebbe sostenere l’amministrazione Biden per altri due anni; se nel frattempo riuscissero a conquistare un altro paio di seggi al Senato potrebbero riuscire a far passare leggi importanti, leggi che possono fare la differenza.
Negli scorsi mesi e di nuovo nell’anniversario del 6 gennaio, Robert Kagan e altri hanno parlato non solo di una minaccia alla democrazia americana, ma di una minaccia “fascista”. Cosa ne pensi?
Il fascismo può assumere forme diverse; in Germania, Italia, Spagna, Romania ha avuto espressioni diverse; per cui, sì, potrebbe anche manifestarsi una sua versione americana e credo proprio che ci siano gruppi di destra, qui, che potremmo definire neo-fascisti. Tuttavia ritengo che questo non sia un termine utile nel dibattito politico americano, per via della caratteristica peculiare del populismo nazionalista americano. A differenza, infatti, del populismo nazionalista latino-americano che investiva davvero soldi per aiutare poveri, e -finché ce n’era- distribuiva denaro con una certa generosità; pensiamo a luoghi come il Venezuela, l’Argentina… Ecco, i populisti americani non sono affatto così: non hanno mai fatto nulla per i poveri, ed è su questo che i democratici dovrebbero puntare. Non si tratta di un populismo di destra che fa appello al popolo come quello di Peron in Argentina, che si rivolgeva ai lavoratori. I populisti americani sono ostili a qualsiasi misura possa alleviare le disuguaglianze nel nostro paese. Intento dire, apertamente ostili. Insomma, ci deve pur essere una maniera politica di trarre vantaggio da questo.
(a cura di Barbara Bertoncin, traduzione di Stefano Ignone)