Il partito comunista italiano ha sempre avuto la fama di essere “diverso”, ovvero meno ligio rispetto all’Urss. Eppure, in particolare a partire dal ’56, chi prese posizione contro l’Unione Sovietica venne isolato, anche sul piano personale. Come si spiega questa forma di ipocrisia?
Innanzitutto eviterei la parola “ipocrisia” perché connota subito un giudizio morale. Credo che la questione vada invece affrontata da un punto di vista storico. In quest’ultimo periodo ci sono stati diversi interventi sul tema, da Galli della Loggia sul Corriere della Sera all’ultimo libro di Zaslavsky sullo stalinismo della sinistra italiana, che, pur individuando giustamente i limiti, le colpe, le omissioni della sinistra italiana, si limitano, soprattutto il primo, a una forma di invettiva morale, senza compiere il passo successivo che è quello di problematizzare, ovvero di formulare interrogativi storici.
Il partito comunista francese, per esempio, sul piano ideologico era estremamente rigido, settario e anche abbastanza incolto. Il comunismo italiano rappresentava invece un modello di atteggiamento critico, che dava la possibilità di una presa di distanza dallo stalinismo. Quindi c’era innanzitutto un elemento di relatività che lo faceva sembrare diverso.
Oggi, a prevalere è un atteggiamento un po’ speculare tra gli accusatori e i difensori. Gli accusatori dicono: i comunisti italiani si credevano e si sentivano maggiormente autonomi invece erano servi di Mosca come gli altri -estremizzo un po’; gli altri rispondono: noi in Italia eravamo totalmente diversi, facevamo la nostra politica, avevamo la nostra linea…
Il partito comunista italiano è stato un partito estremamente ligio a Mosca; soprattutto negli anni ‘50 è stato un partito ultrastalinista. Il libro di Zavlavsky mostra appunto -documenti alla mano- che era quella l’interpretazione giusta. Tuttavia, è altrettanto vero che il comunismo italiano si è caratterizzato per una lotta in difesa della democrazia, dei diritti sociali, dell’allargamento di spazi di libertà e democrazia.
Ecco, questi sono due aspetti che vanno tenuti distinti e però considerati entrambi.
Tra gli anticomunisti pare abbiano trovato cittadinanza più gli ex comunisti che quelli che comunisti non erano mai stati. Figure come Nicola Chiaromonte sono rimaste ai margini… Perché in Italia non è mai sorto un anticomunismo di sinistra?
Questo è stato sempre un po’ vero nella storia del comunismo: gli ex comunisti, i disillusi o i rinnegati (a seconda di come venivano classificati o si qualificavano), sembravano i più adatti e i meglio autorizzati a capire e quindi a poter condannare.
In effetti, in Italia non c’è mai stata una sinistra antistalinista e di massa. E’ mancato proprio uno spazio culturale per figure come quella di Chiaromonte, così come è mancato uno spazio politico per un’esperienza compiuta di socialdemocrazia.
Probabilmente se la crisi del ‘56 fosse avvenuta nel ‘63, quando il processo di modernizzazione, del boom, era arrivato a compimento e c’erano anche altre possibilità culturali, le cose sarebbero andate diversamente.
Invece la crisi è arrivata mentre erano in atto uno scontro e una polarizzazione che non erano solo politiche, ma anche sociali. Nel 1956 era impossibile che le masse operaie decidessero di abbandonare il Partito Comunista perché questo, allora, non solo costituiva l’armatura che le difendeva sul piano contrattuale e sindacale, ma rappresentava anche un’identità diversa, l’idea di un avvenire e un futuro gratificanti, di una vita completamente differente che permetteva di reggere una quotidianità spesso difficile...
Non è un caso che siano stati gli intellettuali ad andarsene. Nel legame che si era costruito tra il Partito Comunista e le masse operaie, oltre al ruolo della Resistenza, della difesa sindacale ecc., il rapporto con l’Urss aveva costituito un elemento importante, era la nuova religione.
Allora, se vogliamo dare per buona questa analogia, bisogna anche riconoscere che non è co ...[continua]
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