Marcello Flores insegna Storia comparata nella Facoltà di Lettere dell’Università di Siena dove dirige il Master "Human Rights and Genocide Studies”. Con il Mulino ha pubblicato, tra l’altro, Il genocidio degli armeni, 2006. Il libro di cui si parla è Storia dei diritti umani, Il Mulino 2008.

L’anno scorso si è celebrato l’anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, proclamata a Parigi il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma quand’è, storicamente, che si comincia a parlare di "diritti umani”?
Possiamo dire che il contesto storico in cui inizia il discorso sui diritti umani in modo abbastanza coerente e continuo è quello del XVIII secolo.
Attorno alla metà del ’700, da una parte abbiamo che il grande pensiero dell’Illuminismo si interroga e mette a punto una nuova teoria di libertà, di cui i diritti dell’uomo sono un aspetto preponderante. Contemporaneamente, piccoli gruppi di persone (che col tempo riescono a coinvolgere settori sempre più ampi) ingaggiano una battaglia per l’abolizione della tratta degli schiavi.
Questi due fenomeni -di riflessione teorica e di partecipazione e organizzazione pratica per porre fine a un’ingiustizia palese- trovano una specie di sintesi nei due momenti rivoluzionari che segneranno profondamente quest’epoca, ovvero la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese.
Se possiamo individuare in questo contesto l’inizio del discorso sui diritti, va subito precisato che parliamo di un percorso non lineare, e che però allarga continuamente la propria prospettiva, affiancando ai diritti innanzitutto civili e politici, che riguardano i maschi, la battaglia per diritti civili e politici delle donne.
Nel corso dell’800 si consolidano anche le lotte per i diritti economico-sociali, e i diritti che riguardano le cosiddette leggi umanitarie, cioè i diritti dei prigionieri, dei soldati e delle popolazioni civili durante la guerra.
Con il ’900, dopo la grande tragedia delle due guerre mondiali e dei totalitarismi, si arriva così alla definizione dei "diritti umani universali”, sancita appunto nella dichiarazione del dicembre 1948.
Ecco, si può dire che da quel momento ha inizio una nuova fase, quella che giunge fino a noi, caratterizzata da un cammino segnato da una serie di intralci e pause, soprattutto negli anni della Guerra Fredda, ma che comporta l’allargamento dei diritti anche a quelli collettivi, ai diritti culturali, ai diritti comunitari, ai diritti che riguardano l’ambiente, la privacy e prima ancora al diritto all’autodeterminazione dei popoli; diritti in qualche modo prima improponibili che scandiscono la stagione dei diritti nel secondo dopoguerra, di cui i momenti essenziali sono la Conferenza di Helsinki del ’75, la Conferenza di Vienna del ’93 e una serie di convenzioni internazionali che vengono sottoscritte dalla maggior parte degli Stati presenti nelle Nazioni Unite.
Dopo la fine del comunismo e la caduta del Muro di Berlino, negli anni ’90, il discorso sui diritti umani si allarga ulteriormente diventando momento di consapevolezza comune.
Negli anni ’90 ci troviamo di fronte ad alcune novità terribili, che sono rappresentate dalla guerra in Jugoslavia da una parte, e dal genocidio in Ruanda dall’altra.
Proprio nella riflessione sull’incapacità di fermare queste violenze e queste tragedie, emerge la necessità di ripensare all’insieme della dinamica dei diritti umani e della loro protezione contro chi li viola.
E’ un periodo, questo, dell’ultimo decennio del secolo, e poi dell’inizio del XXI secolo, in cui la questione dell’intervento anche armato per portare diritti, cioè la democrazia, o per interrompere gravi violazioni di diritti, viene usata per molti Stati in modo anche abbastanza disinvolto.
La questione del relativismo emerge contemporaneamente alla Dichiarazione. Nel libro racconti come l’American Anthropological Association pose un interrogativo cruciale sulla reale "universalità” dei diritti. Puoi raccontare?
Sì, la questione è doppia, e si pone con evidenza già nel ’48. La duplice domanda può essere articolata come segue: i diritti possono davvero essere universali, e quindi valere per tutte le culture? La dichiarazione "universale” non ha in realtà l’impronta di una cultura in particolare, cioè di quella occidentale, che cerca di imporsi in qualche modo alle altre?
Allora, da un punto di vista generale, è evidente che qualsiasi ipotesi universale deve riusc ...[continua]

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