Lei è stato un vero pioniere, per quanto riguarda la storia fotografica dei gulag, in quanto ha dato un grandissimo contributo alla costruzione di una memoria storica sui gulag. Ci può spiegare come ha portato a compimento questa sua ricerca?
Le prime fotografie sul gulag le ho trovate in Polonia nel 1986. Le avevano scattate i prigionieri polacchi poco dopo essere stati liberati dai campi sovietici nel 1956, e cioè tre anni dopo la morte di Stalin. Queste fotografie, per trent’anni, erano rimaste nascoste nei cassetti privati. Nella Polonia “comunista” l’argomento gulag era tabù. Parlare dei crimini sovietici, comportava molto spesso la repressione da parte della polizia politica. Nei tre anni seguenti sono andato alla ricerca in Polonia degli ex prigionieri, al fine di scovare e descrivere le fotografie che avevano custodito. Dopo, per continuare il progetto, è stata la storia a darmi una mano. L’accordo della “Tavola Rotonda” e la caduta del regime comunista in Polonia hanno reso possibile l’esposizione di queste fotografie alla mostra di Varsavia, nel 1989. L’anno successivo, per la prima volta, ho avuto la possibilità di andare nell’Urss, in piena “perestrojka” e “glasnost”. Sono andato a Vorkuta, che si trova nel circolo polare artico e che negli anni di Stalin costituiva un grande complesso di campi industriali (quei luoghi li conoscevo dalle foto raccolte in Polonia). Volevo vedere e fotografare ciò che era rimasto, dopo trentacinque anni, di quello che fu uno dei peggiori complessi concentrazionari, all’interno dell’Arcipelago Gulag. Dopo tre giorni di permanenza, il Kgb mi ha allontanato, costringendomi a tornare a Mosca, perché non avevo il permesso di permanenza in quel luogo, il cui accesso era proibito agli stranieri. Tuttavia i cambiamenti nell’Urss procedevano velocemente, e già nella primavera successiva potei legalmente ritornare a Vorkuta per continuare il lavoro.
Dopo la caduta dell’Urss, nel 1991, ho potuto consultare molti archivi sovietici. Ho cercato fotografie storiche dei gulag negli archivi di Stato di Mosca e negli archivi nelle province, nei musei e negli archivi privati. Ho iniziato a compiere dei viaggi all’interno dei più importanti complessi concentrazionari, come Wyspy, le isole Solovki, il Belomarkonal, la Kolyma, per fotografare le tracce, ormai quasi svanite, di quella “ civiltà dei campi”, rispetto al paesaggio della moderna Russia. La volontà mi spingeva a cercare, o almeno a tentare di realizzare, un’immagine fotografica dell’Arcipelago Gulag.
Nonostante i numerosi sforzi, il quadro emerso è abbastanza frammentario e lacunoso, poiché non sono riuscito a trovare quelle fotografie che meglio potrebbero rappresentare e manifestare i più scuri aspetti della realtà dei campi sovietici, che per il momento emergono solo dalle testimonianze scritte: prigionieri che muoiono di fame, completamente sfiniti per le dure condizioni di lavoro, mucchi di corpi congelati e sotterrati senza tombe e senza nome e il terrore della vita quotidiana nel campo. Nel 1942, l’anno peggiore per la vita nei gulag, morirono nei campi circa 560.000 persone, ossia una media di un prigioniero su quattro. In alcuni campi la mortalità raggiunse addirittura la soglia del 60%. Non esiste alcuna fotografia in grado di documentare questo massacro.
Sono mai state scattate delle fotografie che descrivono questi orrori? Negli anni ’20 e inizio anni ’30, Stalin ancora non si preoccupava di nascondere l’esistenza dei campi. La propaganda li rappresentava come luoghi di rieducazione dei delinquenti e dei “nemici del popolo” che, attraverso il lavoro, sarebbero stati trasformati in consapevoli cittadini della società socialista. A tale scopo, la propaganda produsse una vasta documentazione fotografica e cinematografica, come ad esempio testimonia il filmato sul campo di Stowieckim, del 1927. Quando venne pianificata la costruzione del Canale del Mar Bianco, fu creato un apposito ufficio che av ...[continua]
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