Come finì nel Gulag?
Fui arrestato dall’Nkvd nel 1944 mentre servivo al fronte, come figlio di un nemico della nazione, perché mio padre era stato perseguitato nel 1938 durante il Grande Terrore. Fui condannato a cinque anni di campo e tre anni di confino. Avevo allora diciassette anni, scrivevo versi.
La regione dove finimmo -Komi ASSR (Repubblica Autonoma Socialista Sovietica)- era una zona di lager dove a fianco di decine di migliaia di prigionieri lavoravano anche migliaia di salariati liberi: capomastri, ingegneri, geologi, contabili, fornitori, addetti alle comunicazioni e ai trasporti. C’era anche un numeroso “vertice” dei campi: comandanti, guardie, personale amministrativo del gulag. Nei campi si organizzavano i teatri perché tutta quella gente libera, che viveva però in una cupa atmosfera carceraria, non morisse di noia e di nostalgia nelle lunghe notti polari.
In ognuno degli enormi complessi carcerari della Repubblica Komi esisteva un teatro professionale. Grazie a ordini speciali si pescavano nei campi musicisti, artisti e ballerini. Fra loro c’erano grandi nomi, conosciuti in tutta l’Unione Sovietica.
Com’era un giorno di lavoro nel teatro del campo?
Gli artisti prigionieri abitavano nelle baracche al campo. Al mattino venivano portati sotto scorta all’edificio del teatro per le prove. Accanto all’entrata stavano gli “automatciki”, soldati dell’Nkvd con le armi automatiche. Di sera lo spettacolo. In sala si raccoglieva il pubblico libero, l’ingresso principale era aperto e illuminato, ma agli artisti-prigionieri non era consentito scendere in platea o nel foyer. Per tutto lo spettacolo dietro le quinte stavano le guardie con i mitra. Invisibili al pubblico potevano tenere d’occhio gli artisti in scena. Dopo lo spettacolo una scorta riportava gli artisti al campo, dietro il filo spinato.
Le notti al campo erano molto pesanti, la gente ce la faceva perché si sforzava di pensare al teatro, al lavoro, alla creatività. Non aiutava però molto, perché di notte sopraggiungevano i pensieri: sul proprio destino, la propria vita spezzata, la famiglia, gli amici più cari. Un giorno in teatro era… lo dico così: una gabbia dorata, una notte in baracca una gabbia pesante, di ferro.
Volevo chiederle che cosa provavate e pensavate quando recitavate sulla scena del teatro del campo...
È una domanda complessa e dai molti risvolti. Perché? Prima di tutto il prigioniero al quale riusciva di entrare nel teatro si sentiva già felice per quel solo motivo. Perché il teatro non era il taglio della foresta, non era la miniera, lo scaricamento dei vagoni nel gelo. Per quelli che riuscivano a lavorare nella propria professione, penso agli artisti ma anche agli ingegneri, ai medici, era la salvezza dall’incubo.
Nel gulag tirarsi fuori dai lavori comuni significava per molti la salvezza dalla morte per fame e sfinimento. Questo è chiaro. Ma più tardi, quando il lavoro in teatro diventava quotidianità, affiorava una riflessione sull’ambiguità e la tragicità della situazione nella quale vi trovavate come artisti?
In Russia questo no ...[continua]
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