Lei pone il suo libro sotto il segno de "L’antropologia della catastrofe". Che cosa intende con questo termine?
Ne L’Epreuve du désastre, le XXèmè siècle et les camps, tento di dare una consistenza (o una costituzione) concettuale al termine "catastrofe", di farne una categoria che occupi un posto centrale in un approccio filosofico a questa parte del disastro moderno e contemporaneo che viene nominato in modi differenti -l’Estremo, i campi, i genocidî, i crimini contro l’umanità, la violenza totalitaria, ecc. Nei suoi usi correnti, il vocabolo "catastrofe" è un contenitore che trae la sua unità solamente dal tipo di sensazione estetica (tremendum, horrendum, fascinans...) che viene suscitata nel pubblico da un certo numero di scene o di avvenimenti ridotti per l’essenziale alla condizione di immagini di grande potenza: incidenti ferroviari, incidenti automobilistici, scontri tra aerei, maremoti, maree nere, guerre civili, incidenti sportivi, terremoti, rivoluzioni, epidemie, genocidî, incendi di foreste, attentati terroristici, crolli di edifici... Secondo questa accezione comune e mass-mediatica, la morte del campione di Formula Uno Ayrton Senna è una catastrofe, e il massacro dei tutsi da parte delle milizie hutu anche, cosa che, eventualmente, permette al primo avvenimento di fare da schermo al secondo. Più vicino a noi, il fallimento del lancio del missile Ariane 5 è anch’esso una catastrofe, né più né meno della distruzione della Cecenia per opera dell’esercito russo.
Nel mio libro, dunque, mi sono sforzato di sfuggire a questo guazzabuglio dove tutte le catastrofi sono, non tanto grigie, ma piuttosto rosso-sangue e tutte promettenti sensazioni forti e un piacere estetico inconfessabile. Si potrebbe chiamare tutto ciò la moneta spicciola, i centesimi, di quel che Kant chiama "il sublime" nella Critica del Giudizio. Ho dunque cercato un doppio approccio alla nostra attualità storica (nel senso che Foucault dà a questa espressione dopo Kant: ciò che fa senso o pone la questione del senso nella nostra modernità, ciò che fa del tempo attuale il nostro problema e ci sollecita, come soggetti maggiorenni, a divenire responsabili della propria storia...) attraverso la categoria della catastrofe.
Quali sono i riferimenti filosofici di questo approccio alla catastrofe?
Primo versante di questo approccio, una riattivazione della prospettiva elaborata da Hannah Arendt -in un’estrema prossimità, a mio avviso, a Walter Benjamin- e che fa dell’interruzione (la rottura, la breccia..) una categoria strategica per pensare il punto di fusione, nel XX° secolo, degli antichi codici, dei modi di intellegibilità tramandati dalla tradizione o forgiati dalla modernità. Interruzione che una genealogia del totalitarismo incontra su tutti i piani: interruzione cataclismatica della storia dello stato-nazione con la prima guerra mondiale, prima ancora dell’irruzione delle forme totalitarie; interruzione della tradizione politica ereditata o ripresa dalla città greca; interruzione della storia della ragion pratica, se così si può dire -vedi le riflessioni di Hannah Arendt sulla banalità del male totalitario e il senso radicalmente nuovo che assume la nozione di crimine in una configurazione in cui il criminale diviene radicalmente assente al proprio atto e incapace di concepire la propria responsabilità, come lo è un Eichmann.
La catastrofe è il versante oscuro di questo nuovo regime della storicità votata a radicali discontinuità. In questo senso, essa si accompagna all’avvenimento sperato (la Rivoluzione, senza dubbio) di cui si nutre l’attesa messianica in Benjamin. Ma la catastrofe, anche, e forse soprattutto, si oppone al miracolo (di una rivoluzione, di un salto in un tempo salvato) come la storia compiuta si oppone alla speranza incompiuta: è Auschwitz che si è realizzata e non l’interruzione rivoluzionaria (tedesca, europea, mondiale...) sperata all’inizio degli anni Venti dagli strateghi della Terza Internazionale e da tanti altri visionari. A questo proposito, pensare la catastrofe è pensare il nuovo regime di una storia sconvolta dai disastri del secolo (i genocidî, specialmente) che scompigliano la dialettica storica e producono la breccia incolmabile tra il passato e l’avvenire di cui parla Hannah Arendt dopo Kafka ...[continua]
Esegui il login per visualizzare il testo completo.
Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!