Il nostro nome era Qwidicca-atx, che significa “la gente del promontorio”, ma poi è prevalso il nome con cui ci chiamavano le altre tribù, cioè Makah, anche perché è più facile. Eravamo un popolo di cacciatori di foche e di balene; i cacciatori di balene, che passavano molti giorni in mare, appartenevano agli alti ranghi e per diventarlo occorreva un lungo addestramento; chi arpionava la balena ne riceveva la parte migliore. Le donne avevano il compito di preparare i cibi ed i cesti di corteccia di cedro per conservarli. La balena era per noi quello che il bufalo era per gli indiani delle pianure: serviva un po’ per tutto, per l’olio, per costruire, con le ossa, utensili per la pesca. Quando, negli anni ’70, la pesca è diminuita a causa dello sterminio fatto dai bianchi, mio zio, per salvaguardare i nostri diritti, ha fatto causa, insieme ad altre tribù della penisola, allo stato di Washington. Il giudice stabilì che, in base al trattato stipulato alla fine dell’800, agli indiani spetta il 50% della pesca. Noi abbiamo preso dal mare solo quello che ci serviva e sapevamo come sfruttare il pesce in modo da pescarne il meno possibile; i bianchi invece hanno pescato senza nessun criterio. La nostra era anche una tribù di guerrieri, abbiamo combattuto molto contro i Klallam. Ci sono due canti di vittoria che cantiamo ancora. Uno dice che la nostra tribù non ha eguali, l’altro dice “tu sei il mio nemico, mi hai trascinato in battaglia; ora che sei battuto perché piangi?”. La squadra di football della nostra scuola li canta sempre ai campionati. Sarebbe impossibile dire a quando risalgono le nostre usanze, perché ciò che veniva trasmesso da una generazione all’altra non era scritto. Sono cose che potrebbero aver avuto inizio 200 come 2.000 anni fa; di esse mi ha parlato una mia prozia, così come mi ha parlato delle iniziazioni. Quando una ragazza cominciava ad avere le mestruazioni veniva portata in un luogo solitario, in una capanna di corteccia di cedro, e ogni giorno scendeva al ruscello per lavarsi. Ovviamente c’era gente che vegliava su di lei. L’allontanamento dalle altre ragazze e dalla famiglia era una risposta alla necessità di tenere lontano dagli altri il mistero della femminilità; perché per gli indiani i segni della fertilità femminile rivelavano un potere magico, misterioso. Questo tipo di iniziazioni, inoltre, contraddistingueva gli appartenenti agli alti ranghi della tribù e servivano per diventare degli uomini e delle donne virtuosi. Ciò che distingueva un appartenente agli alti ranghi era il suo nome e la sua condotta nel villaggio: non mentiva, non imbrogliava e aiutava gli altri.
Della vostra cultura ciò che più avete conservato sono i canti e le danze, come nascevano?
Il canto nasceva dal sogno o dalla visione di una persona che lo faceva conoscere alla sua famiglia, se questa dava il suo permesso lo poteva usare tutta la tribù. I più dotati creavano le danze attraverso visioni che erano raggiunte con la meditazione e la preghiera, ma queste non hanno niente a che vedere con l’usanza delle tribù delle pianure di sottoporsi a sofferenze fisiche. Mi è capitato di veder succedere che, se una canzone veniva perduta insieme ad un membro della tribù che moriva, dopo tre o quattro generazioni la stessa persona, attraverso un sogno, insegnava di nuovo il canto alla sua famiglia; così il canto non andava perduto.
Cosa è rimasto della vostra religione e quanto le vo ...[continua]
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