La recente vicenda della dirigente Red Bull invitata a lasciare l’azienda al rientro dalla maternità ha messo in luce un fenomeno purtroppo ancora diffuso. Puoi parlarne?
E’ un problema reale e il dato più preoccupante è che, nonostante gli slogan familistici, il fenomeno non appare affatto in declino, anche per una sorta di ostilità da parte delle aziende, fondata sull’idea che una donna lavoratrice che diventa madre non rende più come prima.
Partiamo da un dato. L’ultima rilevazione Istat sull’argomento risale al 2005 e ci dice che il 13% delle donne che lavoravano all’inizio della gravidanza si dimettono nell’arco del primo anno di vita del bambino.
Il primo anno di vita del bambino è un periodo particolare perché in questa fase le donne non sono tenute a dare il consueto preavviso e in caso di dimissioni hanno diritto a sei mesi di copertura. Tant’è che molto spesso lo stesso sindacato, davanti all’emergere di qualche difficoltà, consiglia alle neomamme: "Se tu torni e l’azienda non ti vuole dare il part time, se non hai i nonni, se non c’è l’asilo, se non sai come fare, dimettiti”. Purtroppo questa è una scorciatoia che non paga, perché è vero che ti dà la possibilità di trascorrere qualche tempo col tuo bambino, però dopo tornare sul mercato del lavoro diventa ancora più complicato, ed è facile finire nel lavoro nero o, peggio, incorrere in episodi di depressione. Dobbiamo infatti tenere presente che una donna abituata a lavorare, magari anche appassionata di quello che fa, vorrà senz’altro stare col proprio bambino, ma non tutti i giorni 24 ore su 24.
Le donne che invece riescono a tornare sul mercato del lavoro, molto spesso sono soggette a quello che viene chiamato "mobbing strategico” e che si concretizza in varie forme. Ho in mente il caso di una donna quadro nella pubblica amministrazione, che coordinava un ufficio, a cui l’assessore di riferimento ha letteralmente soppresso il posto. Quando lei è tornata dalla maternità ha chiesto: "Ma perché?” e lui le ha risposto "Questa è la seconda maternità, con due bambini, cosa può fare?”. Nell’immaginario collettivo una donna che torna dalla maternità, che ha un bambino, non può più lavorare come prima.
Oggi si parla molto della cosiddetta womenomics (la teoria economica che vede una stretta connessione tra lavoro femminile e crescita economica), escono articoli sulle riviste, si pubblicano libri. C’è anche un nuovo documento del Ministero del Lavoro e del Ministero delle Pari opportunità, il cosiddetto "Italia 2020”, in cui si ribadisce che ci vogliono più donne sul mercato del lavoro, eccetera, dopodiché non si fa niente per impedire che un quinto dell’occupazione femminile, lasci il mercato del lavoro!
Allora, se pensiamo di poter tranquillamente perdere risorse, o siamo una società incomparabilmente ricca, oppure siamo una società incomparabilmente stupida, e temo che sia la seconda ipotesi quella giusta.
L’Italia oggi ha un tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa, il 46-47%, perché se nel Centro-Nord si raggiunge quasi quel 60% previsto da Lisbona, c’è il Sud che col 30% sconta ben 30 punti percentuali in meno. I tassi poi scendono miseramente quando parliamo di donne oltre i 50 anni, inoltre abbiamo poco part time e troppo lavoro nero o "grigio”.
Sono cifre preoccupanti. Soprattutto perché oggi le donne vogliono starci, nel mercato del lavoro, perché hanno studiato, si impegnano e giustamente vogliono realizzarsi sia nel lavoro professionale che nella vita affettiva, familiare. E però non trovano alcun sostegno, mancano gli asili nido e manca un’assistenza adeguata per gli anziani.
Puoi raccontare della ricerca che avete condotto?
Apro una parentesi: le donne che si dimettono volontariamente entro il primo anno di vita del bambino devono passare obbligatoriamente per un colloquio con l’Ispettorato del lavoro, che chiede perché si dimettono, cercando di capire se dietro i "motivi personali” non ci siano piuttosto episodi di discriminazione o mobbing.
Classicamente si dice infatti che "le donne abbandonano ...[continua]
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