Dopo una lunga carriera nelle partecipazioni statali, lei ha maturato una grande passione per i giardini. Può raccontare?
Non è che io prima facessi il manager e poi a un certo punto abbia deciso di darmi al giardinaggio. La passione per la natura non mi è venuta al momento di andare in pensione: ho sempre amato la natura e devo dire che mi piaceva e che rimpiango molto anche la mia vita professionale, non la rinnego assolutamente. L’ho lasciata perché ho visto che non potevo più svolgerla in modo consono con le mie idee. Io avevo sempre lavorato nelle partecipazioni statali e ad un certo punto l’ingerenza politica era diventata sempre più pesante. A questo si aggiungeva la mia delusione politica. Come idee, io sono sempre stato sostanzialmente un liberal-socialista: se mi trovo a frequentare dei socialisti troppo arrabbiati, divento liberale; se mi trovo con dei liberali che non considerano anche che c’è una vita di società e di relazioni, allora divento più socialista.
Io credo che in tutte le cose sia necessario trovare la misura, vale anche per le piante, che spesso vogliono il terreno fresco, ma non vogliono ristagni d’acqua, eccetera. Mi piace fare dei raffronti fra il mondo vegetale e le cose. Si tratta sempre di trovare un bilanciamento fra esigenze che sono molto contrastanti, tante volte. L’altra cosa che si impara, sia nella vita, sia in quello che succede in natura, è che non esistono regole assolute: una ricetta che va benissimo in un caso, non funziona in un altro.
Lei dice che nella sua educazione la guerra ha contato molto.
Mi è sempre piaciuto mettermi contro le autorità: da studente riconosco che ero diventato anche un po’ succube di questa figura. Io ho preso la licenza liceale molto presto, prima di compiere i sedici anni, perché ero già avanti di un anno e ricordo che a un certo punto il preside del liceo qui a Roma chiamò mio padre e gli disse: "Senta, per piacere, ci tolga suo figlio. È un ragazzo che riesce nello studio, gli faccia fare il salto, vedrà che se la cava e noi tiriamo un grande sospiro di sollievo”.
Dopo il diploma volevo andare all’Università in Inghilterra. Però, era il periodo fascista e c’erano troppe difficoltà, perciò andai in Germania. Quando cominciò la guerra, rientrai, con dispiacere peraltro: ad Heidelberg non studiavo mica tanto e invece mi divertivo moltissimo. Infatti non volevo tornare. Tra l’altro chi faceva l’università poteva rimandare il servizio militare. Invece mi trovai che compivo vent’anni e non avevo fatto le pratiche necessarie, così mi chiamarono.
Avrei potuto forse ricorrere ma pensai: "Tanto prima o poi chiamano tutti”. In realtà non era così. Comunque è vero, io credo che la guerra abbia agito in senso positivo su di me. Mentre invece il servizio militare...
Io vengo da una famiglia di ufficiali: mio nonno era ammiraglio, è stato anche Ministro della Marina. Io avevo "dirazzato” completamente in questo: trovavo un’assurdità obbedire ai regolamenti dell’epoca di Federico Il il Grande, che erano ancora il modello. Pensi che il mio reggimento, dove mi avevano mandato dopo la Scuola allievi ufficiali, aveva un maestro di scherma: perché tirare di scherma, nella battaglia, è essenziale, no? E invece non avevamo le armi che sarebbe stato molto più utile avere. Insomma era una situazione proprio idiota. Unisca questo al mio spirito polemico... al reggimento stavo male. E non è che fossi molto popolare. Invece in guerra divenni una figura popolare, perché in guerra l’autorità non conta niente. Lei non può dire ad un soldato: "Fai quest ...[continua]
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