Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti vivono a Roma assieme ai figli Lia, di quasi sei anni, e Andrea, tre anni e mezzo. Sono impegnati in Famiglie Arcobaleno, associazione di genitori omosessuali.

Com’è maturata la decisione di diventare genitori?
Tommaso. Ci abbiamo ragionato per molti anni; ci siamo chiesti se farlo, con chi farlo, come farlo. Eravamo abbastanza tranquilli sul fatto che una coppia dello stesso sesso fosse in grado di tirare su bene un bambino; le preoccupazioni erano altre, erano di carattere sociale, culturale, e anche rispetto all’accettabilità della soluzione scelta. All’inizio ci siamo brevemente soffermati sulla possibilità di avere figli con amiche, però, insomma, è una cosa che non è andata in porto, anche se non è un’opzione che in assoluto non possa funzionare. Quindi ci siamo abbastanza presto orientati verso la "gestazione per altri” o, come si dice in Italia, "utero in affitto”, un’espressione che noi non amiamo affatto. In questo caso a preoccuparci era la dimensione economica e il possibile sfruttamento della donna. Dopo un primo incontro con l’agenzia americana, c’è stato un intervallo di quattro anni, dopodiché abbiamo deciso di ripartire.
Gianfranco. Quando abbiamo cominciato a pensarci, sentendo parlare di "utero in affitto”, francamente per me era molto difficile accettare che questa potesse essere la "nostra” soluzione per diventare genitori. Anche perché mi ricordo di questi articoli un po’ scandalistici, molto poco approfonditi, molto partigiani. Insomma, quando abbiamo cominciato a parlarne, per me era veramente assurda l’idea che noi si potesse fare una cosa di questo tipo. Col tempo, approfondendo il discorso, cominciando a conoscere le coppie che l’avevano fatto, ma anche le madri "portatrici” , le cose hanno cominciato a prendere un altro spessore, si sono complicate, non era più bianco/nero, sì/no, cominciava a diventare: "Questo può andare, questo ancora non mi torna”. In particolare mi lasciava perplesso il discorso economico, ma soprattutto non capivamo il livello di coinvolgimento e anche le motivazioni che spingevano una donna a portare avanti una gravidanza per altri.
Ancora oggi una delle domande che più spesso ci vengono poste è: "Come fa una donna a dar via il bambino che ha portato per nove mesi?”, che è la domanda che avevamo anche noi. Poi però scopri che, cambiando i termini della questione... Voglio dire, Nancy, la persona che ha portato i nostri bambini, non si percepisce come madre, bensì come una persona che sta aiutando una coppia sterile ad avere bambini, mettendo a disposizione il proprio corpo. Le donne che fanno la gestazione per altri non considerano quel bambino il proprio figlio, tanto più che spesso la "portatrice” non è la madre genetica. Parliamo comunque di donne consapevoli di quello che stanno facendo: non sono donne bisognose che stanno vendendo il proprio utero per risolvere una questione finanziaria, non sono mosse dal bisogno.
Potete spiegare come funziona la gestazione? Dicevate che le donne coinvolte sono quasi sempre due, perché?
Tommaso. C’è una donatrice d’ovulo e una portatrice, questi sono i termini tecnici. Per diversi motivi. C’è un motivo di ordine medico: una donatrice d’ovulo fa una piccola terapia ormonale per donare numericamente più ovuli, la portatrice fa una terapia ormonale per essere più ricettiva nel momento dell’impianto. Se fosse un’unica donna dovrebbe sottoporsi a un doppio trattamento.
Poi, di solito, sono due tipi di donna diversi. Le donatrici tendono a essere donne giovani, che casomai non hanno ancora figli, mentre le portatrici sono donne meno giovani che hanno già avuto gravidanze. Infine c’è un motivo giuridico e cioè che negli Stati Uniti c’è una giurisprudenza consolidata in base alla quale le portatrici non hanno particolari diritti sul bambino, invece la portatrice che è anche donatrice ha una posizione legale meno chiara. Questa dunque è una formula che funziona meglio in tutti i sensi.
La donatrice è anonima?
Tommaso. Quando l’abbiamo fatto noi erano perlopiù anonime, adesso non lo sono più. A me dispiaceva un po’ di non poterla conoscere e soprattutto che i bambini non potessero farlo. Abbiamo ottenuto che fossero disposte a incontrare i bambini alla maggiore età.
Mentre la donatrice viene selezionata da una banca dati, il rapporto con la portatrice è più stretto, lì c’è proprio una sorta di incrocio di questionari in cui sia la coppia che la portatrice spiegano be ...[continua]

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