Michele Ainis, costituzionalista, insegna all’università di Roma Tre. Scrive sul "Corriere della Sera” e su "l’Espresso”. Ha pubblicato una ventina di saggi su temi politici e istituzionali. Il libro di cui si parla nell’intervista è Privilegium, Rizzoli 2012.

Dai dati che lei ha raccolto e pubblicato emerge un paese quasi feudale, dove non c’è solo la casta dei politici, ma ciascuno alla fine difende i suoi piccoli e grandi privilegi di casta, di lobby, di corporazione. Data questa situazione, che ricorda quella dell’ ancien regime, all’interno della triade valoriale del 1789, lei pone l’accento sulla fraternité, una parola non più molto in voga...
Evitando ora scrupoli filologici sul significato originario, è senz’altro vero che noi oggi non ne parliamo più, parliamo magari di solidarietà, che però è un concetto diverso, anche se apparentato. Ora, fraternité è la fratellanza ed è direttamente collegata all’uguaglianza perché tuo fratello è diverso da te, non è identico, ma in qualche modo ha il tuo stesso sangue. Allora questa consanguineità, che ci dovrebbe riguardare come italiani, in realtà non c’è più ed è un effetto della disgregazione sociale e del neocorporativismo di cui abbiamo detto. Il deficit di fraternità è un deficit di unità. La fratellanza probabilmente è un concetto che si può situare a metà del guado; le due sponde sono uguaglianza e unità. La fratellanza in qualche modo le congiunge. Oggi non c’è, infatti noi viviamo da "separati in patria”. Ricorderà il familismo amorale di cui si parlò a proposito del nostro Sud. In realtà adesso riguarda un po’ tutti, nel senso che ciascuno immagina di essere al riparo sotto un tetto che è il tetto -più che della sua famiglia- della sua corporazione. Ecco, questo fatto ci separa. Ciascuno riconosce la propria genia nella categoria sociale alla quale appartiene, nella quale si iscrive volontariamente. Ma questa è la fratellanza che lega i "fratelli” intesi come appartenenti alle varie logge, nel senso che non riguarda tutti, ma soltanto i congiurati.
Lei poi non parla di egualitarismo, bensì di una "disuguaglianza ben temperata”. Può spiegare?
Qui non si tratta di coltivare un egualitarismo. Bobbio distingueva tra eguaglianza e egualitarismo, che è un’eguaglianza di tutti in tutto e quindi è un’eguaglianza nei punti d’arrivo. Per come è stata declinata dai regimi comunisti del Novecento l’esito è stato non solo lo stesso stipendio ma anche la stessa giacchetta, come quella del presidente Mao... Viceversa, una disuguaglianza ben temperata è un’eguaglianza liberale, cioè nei punti di partenza, immaginando una gara sociale in cui vince chi ha più voglia e chi ha più gambe, e non chi un appoggio truccato da parte dell’arbitro. Pertanto all’arrivo non c’è più uguaglianza, c’è una diseguaglianza, nel senso che uno farà il chirurgo e l’altro non so che cosa, però il risultato dovrebbe fondarsi sui meriti, sui talenti, la rivoluzione dei talenti di cui si parlava negli anni della Rivoluzione francese.
Perché questo sia possibile di nuovo c’è da rompere questo muro dalle corporazioni che non fanno certamente emergere i talenti, ma semmai i parenti!
Nel denunciare l’esistenza di tante piccole caste e privilegi, lei in fondo chiama in correità l’intera società civile. Ma come se ne esce?
Le vie d’uscita sono quelle che ho provato a indicare nel libro. Sono delle riforme visionarie che molto difficilmente verranno realizzate, me ne rendo conto. D’altra parte, ritengo che questa sia una fase della nostra storia collettiva in cui l’aspirina non basta più per guarire dal malanno, perché il malanno non è un raffreddore, ma una polmonite. E allora hai bisogno di medicinali forti, se non dei ferri del chirurgo. Fuor di metafora voglio dire che abbiamo bisogno di riforme radicali. Il che significa, per esempio, che anziché baloccarsi (lo facciamo ormai da trent’anni) sulla riforma del bicameralismo, di cui per carità c’è bisogno, perché occorre snellire tutto il procedimento farraginoso che abbiamo addosso, però c’è un’urgenza ancora più pressante a disinnescare i conflitti di interesse e a realizzare un’eguaglianza anche nella società politica. Per esempio ricorrendo in qualche caso anche ai meccanismi del sorteggio. Lo diceva già Montesquieu: il sorteggio "serve” l’idea dell’uguaglianza, cioè è strumento dell’eguaglianza. Con il sorteggio infatti siamo tutti uguali. Questo lo dico in relazione a una delle proposte che avanzo, cioè la "Camera dei ci ...[continua]

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