Mario Maria Nanni è dirigente scolastico all’Istituto comprensivo 21 di Bologna, istituito nel settembre del 2013.

La situazione della scuola pubblica italiana è critica, per qualcuno siamo giunti a un punto di rottura.
Io penso che la scuola abbia bisogno di cambiamenti importanti perché oggi fa fatica a rispondere alle esigenze della società. Quando si discute di riforme si parla sempre e soltanto di cambiamento dei curricula, di studiare di meno o di più una materia, mentre io credo che sul lato didattico, sul lato dei contenuti, l’unica vera domanda che ci dovremmo fare è che cosa dobbiamo insegnare ai nostri allievi, perché sono molto belle tutte quelle espressioni "la scuola che forma il cittadino”, "la scuola che educa le persone”, ma la scuola è composta da membri di questa società che quindi ne sono lo specchio; la nostra è una società oggettivamente composita e allora se parliamo di educazione, che è un concetto molto più vasto di quello della semplice istruzione, cioè della semplice trasmissione di conoscenze, competenze e abilità, c’è bisogno di una grande domanda, di una grande chiarezza, tutte cose molto difficili da imporre per legge. Se la scuola dev’essere una comunità educante dobbiamo chiederci: per educare a che cosa, come e a quali scopi?
Uno dei grossi problemi della scuola italiana è di tipo organizzativo. Lei fa il preside, può raccontare?
Una struttura scolastica gestita dallo stato in una maniera sostanzialmente centralistica oggi è impraticabile, c’è bisogno di un’elasticità molto maggiore. Una vera riforma della scuola, per avere davvero qualche effetto, dovrebbe essere una riforma dell’organizzazione della scuola, della struttura scuola. Premetto che la mia non è una rivendicazione di tipo sindacale e quando dico che la scuola è alla frutta, non intendo che la scuola fa schifo; i miei figli hanno frequentato la scuola pubblica e ho fiducia nel contesto dove vivo, però credo che abbia degli enormi margini di miglioramento e che questi si possano percorrere anche senza troppi soldi. Quello che io come preside faccio molta fatica a gestire è appunto un abominio organizzativo. Io dirigo un istituto comprensivo, composto da una scuola di infanzia, da due plessi di scuola elementare e da una scuola media. In questo contesto lavorano circa 120 insegnanti e una trentina di persone tra amministrativi e collaboratori scolastici. Gli studenti sono 1.200. In teoria, e purtroppo anche in pratica, la scuola è costruita in modo tale che c’è il preside (io continuo a chiamarlo così e non "dirigente scolastico”, perché mi sento un po’ preso in giro da questa definizione), che deve essere il terminale unico di tutto, senza alcuna unità intermedia. Questo sistema non può funzionare con una scuola di queste dimensioni. Noi in teoria potremmo anche utilizzare dei collaboratori, ma non ci sono i soldi per pagarli e non possiamo ottenere degli esoneri, per cui sono persone che fanno anche scuola e quindi non sempre posso delegarli o farmi sostituire se devo essere da qualche altra parte. Quindi cosa succede? Che io alla mattina arrivo a scuola con un elenco delle cose da fare e, quando finisce la giornata, non sono riuscito a fare quasi nulla perché ho dovuto gestire le emergenze. D’altra parte quando hai 2.400 genitori, molti dei quali pretendono di parlare con te ogni cinque minuti, è una tragedia, così come il fatto che per chiamare un supplente per una giornata si debba perdere una mattina; io capisco la piaga sociale, il problema del precariato, però non è possibile, è un carrozzone mostruoso.
È proprio un problema di identità della mia professione: l’unica vera riforma strutturale della scuola, quella dell’autonomia del ’99, ha portato a una situazione in cui noi presidi ci troviamo a gestire la scuola da soli, nel senso di essere gli unici responsabili di tutto quello che succede. È curioso perché nel disegnare la norma si è privilegiata, con una serie di valide motivazioni, l’idea che il dirigente scolastico, data la sua specificità, dovesse provenire dalla scuola, perché deve essere attento agli aspetti educativi, pedagogici e didattici, ma alla fine, proprio perché siamo l’unico punto di riferimento, gli unici responsabili di tutto quello che succede qua dentro, di fatto siamo più delle figure amministrative piuttosto che delle persone che si occupano di educazione e formazione. È un problema molto grosso. Le faccio alcuni esempi. Noi siamo pubblica amministrazione e io so ...[continua]

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