Lei nel suo libro sostiene che, a differenza della Francia, dove la persecuzione antiebraica si innesta su un terreno fertile, in Italia le leggi razziali sono calate dall’alto all’improvviso e, malgrado ciò, sono efficaci in tempi addirittura più brevi che in Germania. Com’è stato possibile?
È così. Una delle questioni principali alla base del mio libro è quella sul perché dopo 15 anni di potere, il fascismo ha deciso di perseguitare gli ebrei e sul perché tale decisione si sia potuta mettere in pratica così rapidamente. In Italia la tradizione di antisemitismo sociale e politico, a differenza di paesi come la Francia, la Germania o la Russia, era abbastanza debole. Anche perché il conflitto tra lo stato italiano e la chiesa aveva in qualche modo ostacolato il processo di trasformazione dell’antisemitismo cattolico in antisemitismo politico così com’era avvenuto in Francia o in Austria con il partito dei cristiani sociali. Certo, esisteva una tradizione di antisemitismo cattolico, ma era rimasta confinata, appunto, in un ambito religioso. D’altra parte lo riscontriamo anche da un punto di vista culturale: se pure troviamo l’antisemitismo in certi romanzi come quelli di Guido Milanesi o Papini, non c’è nulla di paragonabile a ciò che troviamo in Francia, dove ci sono decine di romanzi antisemiti, dove ci sono una stampa, partiti e leghe antiebraiche.
Il caso italiano fa riflettere: abbiamo un governo che ha conquistato il potere con la violenza, che è diventato una dittatura totalitaria, che ha quindi la possibilità di fare ciò che decide, e per quindici anni lascia in pace gli ebrei. Non solo, li ammette nel partito fascista. E se guardiamo le cifre, gli ebrei sono presenti in una proporzione superiore rispetto ai non ebrei, dato spiegabile dalle caratteristiche geografiche e sociologiche dalla comunità ebraica. Non c’è traccia di antisemitismo neanche nella dottrina del fascismo e nei testi ufficiali, anche se sappiamo che Mussolini era antisemita fin da quando era nel Partito socialista e dalla Prima guerra mondiale. Era antisemita secondo quella tradizione di antisemitismo sociale, esistita in certi movimenti di sinistra anche nell’Ottocento, che assimilava gli ebrei ai ricchi, ai banchieri, e che credeva all’esistenza di una lobby ebraica che nel segreto avrebbe controllato il mondo. Ecco, malgrado questo, Mussolini aveva deciso di lasciare gli ebrei in pace e non aveva mai fatto dichiarazioni pubbliche di antisemitismo.
La questione, allora, è capire perché decide "solo nel ’38”, se si può dire, di perseguitare gli ebrei. Ecco, nel libro ho tentato di dare una risposta a questo interrogativo, anche se certamente c’erano già state importanti interpretazioni storiche. E la risposta secondo me va cercata nel contesto.
Restiamo un attimo sulla "improvvisazione”. Il fascismo si sforzò di inventare una tradizione antisemita.
Sì, anche questo è un dato di fatto interessante. Nel momento in cui Mussolini decide di adottare le leggi razziali si sviluppa tutto un discorso propagandistico che insiste sul fatto che ci sarebbe una tradizione che porta il fascismo a perseguitare gli ebrei, quindi una logica, una coerenza. Questa poggerebbe, in primo luogo, su una presunta continuità tra la politica demografica e le leggi razziali. Il che è chiaramente un argomento di "seconda generazione”, cioè inventato a posteriori. In realtà, la politica demografica del fascismo era sempre stata una politica del numero, della volontà di far crescere la nazione, ma senza alcuna connotazione razzista, sino al ’37-’38 appunto.
L’altro argomento che si adduceva era quello della continuità con la politica in Etiopia. È vero che ci fu, su questo non c’è dubbio, una politica razzista in Etiopia; nell’aprile del ’37 c’è una legge, in particolare, che vieta il madamismo, cioè il fatto che uomini italiani e donne etiopiche possano vivere insieme o avere dei rapporti di tipo coniugale. Ciò sarà presentato dai fascisti come una specie di anticipazione delle leggi razziali, in particol ...[continua]
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