Cristofero, potrebbe raccontare un po’ di lei?
Cristofero. Sono nato a Valguarnera Caropepe, in provincia di Enna, il 17 gennaio 1932, da una famiglia numerosa. La mia storia è complicata: avevo sette anni quando ho smesso di andare a scuola per via della guerra. Sono arrivato fino alla terza elementare e poi siamo andati in sfollamento. Quando siamo tornati in paese, nel ’45, la nostra casa non c’era più, l’avevano bombardata, quindi ci siamo arrangiati con una casetta in affitto. Poi sono arrivati gli americani e le cose hanno iniziato a migliorare. Durante i bombardamenti ci riparavamo in una grotta sotto il cimitero. Sopra la grotta c’era la cucina degli americani, allora io, ragazzino, andavo lì e mi davano dei biscotti e tante altre cose.
Ricordo che dopo la mietitura si ammucchiava il grano per farlo seccare e poi trebbiarlo. Noi lo macinavamo alla meglio: facevamo il pane con metà grano e metà farina. Un giorno, mentre stavamo raccogliendo il grano, arriva il campiere, il proprietario, e ci dice di smettere. Eravamo all’ombra di una pianta di gelsi, una pianta grandissima. In quel momento sono arrivati gli aerei e hanno iniziato a mitragliare. Lui era a cavallo di una giumenta, come usavano un tempo i campieri in Sicilia. Una scheggia ha preso la cavalla in testa e sono caduti. Noi eravamo lì sotto l’albero. Quando si è alzato ha detto: "Fate tutto quello che volete. Non mi interessa guardare più niente”. Piano piano le cose si sono calmate …e ci siamo messi a lavorare con i contadini. Io portavo il grano al paese sopra il mulo. Attraversando il paese vedevo camion, armi abbandonate e munizioni. Siccome non avevamo niente, mi facevo le scarpe con la gomma delle macchine, che è fatta a strati. Usavo lo strato all’interno, perché quello all’esterno è troppo duro. Tagliavo delle strisce e la sagoma del piede e facevo delle specie di sandali.
I suoi genitori cosa facevano?
Cristofero. Mia mamma ha sempre lavorato a servizio altrui. Mio padre non lo ricordo molto bene, ha avuto un incidente ed era quasi cieco, aveva una pensione piccolissima. Mi è rimasta impressa una cosa di lui. C’era il fascismo e il sabato partecipavo ai Figli della Lupa, anche se mi sono vestito solo una volta (siccome eravamo poveri, la divisa la dava il Comune). Si chiamava Sabato Fascista: c’erano gli Avanguardisti, i Balilla, i Figli della Lupa. Mio padre non era un fascista, era un socialista. Siccome non ci vedeva, allora lo portavo sempre io per mano. Ecco, quando alla radio c’era Mussolini, bisognava fermarsi tutti ad ascoltare, invece lui subito se ne andava. Tante volte venivano le guardie: "Antonino?”. E lui: "C’ho da fare, sto portando il bambino…”, per squagliarsela, per non dover ascoltare Mussolini. All’epoca non ci facevo caso, ma poi crescendo ho saputo che lui era matteottiano. Di questo però non parlava con me. Era anche pericoloso: se c’era qualche soffiata le camicie nere venivano a prenderti di notte. È triste la cosa.
Poi mio padre è morto e mia madre ha iniziato a fare il pane; noi andavamo in bottega a venderlo, così abbiamo sistemato un po’ le cose. Dopo qualche anno mio fratello si è sposato e un altro è emigrato in Belgio, così sono rimasto solo con un’altra sorella più piccola. Quando sono partito per l’addestramento militare, mia madre era malata. Una sera mi sono messo a canticchiare in un cortile ed è arrivato un altro siciliano con la chitarra. Avevo lasciato mia mamma all’ospedale, sapevo che da un momento all’altro non ci sarebbe stata più. Cantavo questa canzone napoletana, "Carcerato”, e nella mia mente c’era mia madre. Ci siamo raggruppati tutti lì nel cortile a cantare. I militari sono come i bambini, si diventa piccoli un’altra volta. Proprio mentre cantavo, arriva il furiere: "Portogallo, a casa”. Era arrivato il telegramma che la mamma era morta. Quando sono tornato a casa l’ho trovata vuota. Un mese prima avevo lasciato un letto e una sedia: non c’erano più. Si erano portati via tutto i parenti. Mio padre era morto da molti anni.
Sono andato a lavorare da un contadino perché non avevo una lira, n ...[continua]
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