Ci puoi raccontare come sei diventato amico di questo gruppo di “bambini di strada” di Bujumbura?
All’epoca del primo film in Burundi, nel 1991, ero un cineasta alle prime armi e non ero particolarmente interessato all’Africa, paese dove tra l’altro non ero mai stato. È per caso che sono finito a Bujumbura la prima volta: dovevo fare un reportage su un laboratorio di cartoni animati in una scuola burundese, proprio sul tema dei giovani che vivono per strada. Anche l’incontro con il gruppo di bambini di strada, di cui poi sono diventato amico, è avvenuto per caso.
Vivevano proprio sul marciapiede di fronte al mercato centrale nella Chaussée Prince Rwagasore. Io abitavo in centro, all’hotel Burundi Palace, palazzo di architettura coloniale, e andavo alla scuola nel quartiere Rohero 1. Così, ogni mattina e ogni sera passavo davanti alla stazione di benzina dove c’era il loro quartiere generale.
I bambini venivano dai quartieri periferici di Bujumbura, eccetto uno, originario della campagna vicino a Gitega, sulle alture nel centro del paese. Non erano orfani e non erano stati cacciati da casa dai genitori. Se n’erano andati perché a casa loro non c’era cibo a sufficienza, i loro genitori non erano capaci di mantenerli. C’era anche il caso di coppie separate, in cui la nuova compagna o il nuovo compagno del genitore dava da mangiare ai propri bambini e non a quelli dell’altro o dell’altra. Facevano l’elemosina e piccoli lavoretti (vendevano arachidi, controllavano le macchine parcheggiate, trasportavano carichi) sia all’interno del mercato che nelle strade del centro della città. A volte erano i genitori che li spingevano ad andare a mendicare. Alcuni di loro ogni tanto tornavano a casa portando un po’ di soldi. Erano simpatici, e quindi spesso l’elemosina era una fonte di guadagno più importante di quella dei lavori saltuari dei genitori. Ma poi magari succedeva che il padre prendesse tutti soldi e andasse al bar a bere, oppure venivano picchiati… Così, piano piano, avevano smesso di andarci ed erano rimasti a “casa loro”, per strada, dove si sentivano più liberi, anche perché erano pure un po’ indisciplinati. È anche un po’ per questo che per loro è sempre stato difficile mantenere un lavoro a lungo.
Comunque per sopravvivere sulla strada sono maturati troppo presto e hanno dovuto sviluppare una grande forza interiore. Purtroppo, oltre al freddo e agli stenti, subivano molte violenze e spesso i più grandi derubavano e aggredivano i più giovani. Una vita violenta, come diceva Pasolini. Proprio per proteggersi dagli altri costituivano dei gruppi di quattro-sei persone. Il “mio” gruppo era fatto di sei bambini con Zorito capo assoluto.
Dicevi che sono stati i bambini a trovarti e a proporti di fare un film.
Sì, è stata una loro iniziativa: sono stati Assouman, Etu, Innocent, Jean-Marie, Philibert e Zorito che mi hanno incontrato e mi hanno “scelto”. Abbiamo cominciato subito a discutere e a giocare insieme. Innocent e Zorito parlicchiavano francese e traducevano in kiswahili, lingua parlata nel caos della città. Solo da adulti sono passati alla lingua locale, il kirundi, e poi con gli anni hanno migliorato il loro francese e anche io ho imparato il kiswahili e quindi la comunicazione è migliorata.
Zorito mi ha detto: “Philipo, devi fare un film su di noi, perché noi abbiamo tante cose da dire agli adulti di Bujumbura e loro non ci ascoltano mai, per loro noi non esistiamo, siamo invisibili, e questo non va bene, è per noi una grande frustrazione. Siamo visibili solo quando, secondo loro, facciamo qualcosa che non va e allora ci insultano, ci picchiano, ci sputano addosso, sono i soli momenti in cui esistiamo”.
Io ho risposto che non potevo fare il film, perché non conoscevo il Burundi; ho detto a Zorito: “Chiedi a un burundese, che farà il film molto meglio di me”. C’è stata una risata generale! “Questo bianco non capisce niente”, si sono detti. E poi: “Tu sei l’unico che può fare questo film perché ci rispetti, discuti e giochi con noi, hai una considerazione umana verso di noi che nessuno ha, nemmeno i nost ...[continua]
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