La tesi de Il danno scolastico è esposta in modo molto chiaro: la scuola progressista ha danneggiato quella stessa classe sociale che si era ripromessa di aiutare, aumentando così le disuguaglianze. Larga parte del libro è basata sulle vostre esperienze raccolte nelle aule scolastiche. Sostieni che il grande cambiamento in peggio sia avvenuto attorno al 2000, con la riforma Berlinguer. Ci racconti cosa è successo?
Ero nel pieno del mio lavoro di insegnante, ma è importante precisare che tornavo a scuola dopo tre anni di dottorato. Per questo periodo mi ero assentata e, quando, nell’anno scolastico 1999-2000, sono tornata, ho trovato davanti a me un’altra scuola. Voglio essere molto concreta. A settembre, prima dell’inizio delle lezioni, è passata una circolare che chiedeva a tutti i docenti di prima liceo di non insegnare per una settimana, ma di fare invece la “settimana dell’accoglienza”. Sono caduta dalle nuvole. Ci chiedevano di inventarci qualcosa per accogliere i ragazzi, senza toccare la nostra materia, senza toccare un libro. Si doveva piuttosto portarli in giro a vedere la scuola, i bagni, i corridoi. In classe, invece di far lezione, li si doveva mettere in cerchio e farli conoscere con un giro di presentazioni. Cosa facevo prima della “settimana dell’accoglienza”? Entravo in classe e tenevo ai nuovi ragazzi una delle migliori lezioni di cui fossi capace. Spiegavo qualcosa di molto appassionante e molto difficile. Ero capace di fare Virgilio in latino a una prima liceo. Evidentemente non capivano niente, ma mi piaceva far passare il messaggio che fossero sul punto di intraprendere una strada meravigliosa che li avrebbe portati a comprendere ogni singola parola di quel brano: “Sarà un percorso lungo, ma il nostro fine è quello. Magari vi annoierete in questi due anni di grammatica e sintassi, ma abbiamo una meta che vale la pena di raggiungere”. Partivo in quarta: era il mio lavoro, passare un sapere. Con la mia passione, col mio amore per la materia, la letteratura. Ero lì per instradarli a capire la letteratura, dalle origini ai giorni nostri. Invece adesso mi chiedevano di accoglierli, una cosa che ritenevo abbastanza ridicola e umiliante, anche per gli stessi ragazzi. Chi sceglie un liceo, secondo me, vuole trovarsi davanti una difficoltà. L’ha scelta. Perché gli devo spianare la strada? Perché abbiamo avuto così poca fiducia nel nostro lavoro e nelle materie che insegnavamo? Ero inconsolabile, molto arrabbiata. Da lì è partita l’idea del mio romanzo Una barca nel bosco. Tornavo a casa guidando col nervoso e pensavo: ma metti mai che tra questi trenta ragazzi ce ne sia anche solo uno, uno, che ci crede davvero... Che ha fatto dei sacrifici, lui e la sua famiglia, per arrivare fin lì. E mi sono immaginata questo ragazzino del Sud, Gaspare, che viene da un’isola sperduta del Mediterraneo.
Lui ama il latino, sa leggere Orazio -mi rendo conto, è un caso disperato- e la sua famiglia di pescatori decide di fare grandi sacrifici per mandarlo a studiare al Nord, in un liceo di Torino. Ecco: noi, a questo ragazzino ipotetico, ma reale, stavamo offrendo una scuola dalla qualità abbassata, dicendogli che “non si doveva spaventare”, che tutto sarebbe stato semplice. Questo è stato l’inizio. Poi sono arrivati i progetti. Insisto molto su questo aspetto, perché i progetti sono nati in quel periodo, tra il ’99 e il 2000, ed è stato un cambiamento drastico, anche se nessuno ne parla mai in questi termini. Il piano dell’offerta formativa, o Pof. Mi ricordo i collegi docenti. Dicevo: ma cosa dobbiamo offrire di più di quello che già un liceo offre? Offriamo letteratura, latino, filosofia, storia, lingue straniere. E invece no: le materie curricolari hanno cominciato a decadere di valore. La cosa veramente importante erano i “progetti extra”. Faccio un esempio. In seconda liceo si studiano ancora I promessi sposi. L’abbiamo ri ...[continua]
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