20 aprile 2022
È passata una settimana dall’affondamento dell’incrociatore russo Moskva. Da parte ucraina è stato detto che la nave, che era l’ammiraglia della flotta del Mar Nero, è stata colpita da due missili cruise anti-nave Neptune il 13 aprile. Da parte sua, il Ministero della difesa russo ha affermato invece che la Moskva ha subìto “seri danni” dopo che un incendio divampato a bordo aveva provocato l’esplosione di munizioni e che, di conseguenza, la nave era affondata mentre venivatrainata in porto, anche a causa delle condizioni del mare. È ancora ignoto il numero dei membri dell’equipaggio a bordo al momento del suo affondamento (anche se si può presumere fossero centinaia) [NdT: il ministero della difesa russo ha diramato il proprio bilancio dell’affondamento, stimando un morto e 27 dispersi. Il morto riconosciuto sarebbe proprio il figlio di Yulia Tsyvova, una delle due madri delle testimonianze che seguono]. Le autorità russe non hanno ancora confermato un numero di morti. Anzi, a dispetto delle notizie fin qui circolate, che parlano di dozzine di marinai rimasti uccisi, Mosca continua ad affermare che l’intero equipaggio sia stato tratto in salvo. Meduza ha parlato con le madri di due componenti dell’equipaggio della Moskva, i quali -a dispetto delle affermazioni del Ministro della difesa russo- non contattano i familiari sin dall’affondamento della nave.

Tatyana Yefremonko, madre del soldato di leva Nikita Yefremenko, 19 anni
Mio figlio stava svolgendo il servizio di leva obbligatoria a bordo dell’incrociatore Moskva. Si trovava lì sin dal novembre 2021, imbarcato appena aveva concluso l’addestramento. Lui non mi ha mai detto nulla. Una volta mi ha informato che dopo l’addestramento sarebbero salpati; questo prima dell’operazione militare in Ucraina. Ho sentito al tg che il Moskva stava partecipando ai combattimenti presso le isole Zmiinyi, ma mio figlio non mi aveva fatto nemmeno un accenno a tutto ciò. Non diceva niente. Mi ha detto soltanto: “Ti dirò tutto quando tornerò a casa”. Subito dopo l’inizio delle operazioni militari non ho avuto contatti con lui per tre settimane. Mi ha chiamato solo il 10 marzo, poi è arrivata una lettera in cui mi comunicava che si trovavano in mare, e che non aveva accesso a internet. In più, mi ha detto che aveva cambiato idea circa la possibilità di restare arruolato (inizialmente, pensava di rimanere come soldato a contratto al termine della leva obbligatoria), senza però specificarne il perché. D’altra parte, ero stata io stessa a sconsigliargli caldamente di restare sotto le armi finché non si fossero concluse le operazioni militari in Ucraina. Gli ho detto che se avesse desiderato continuare a servire il Paese, avrebbe potuto farlo entrando in polizia, o nella Rosgvardiya (la Guardia Nazionale), dove è difficile finire dispiegati in battaglia. L’ultima volta che mi ha chiamato era il 9 aprile, quando mancavano 58 giorni alla fine del suo periodo di leva. A casa lo aspettavamo già tutti, ma da allora ha smesso di rispondere al telefono.
Ho chiamato il Comitato delle madri dei soldati e loro mi hanno detto che non si occupavano di queste cose. Mi hanno dato un numero di telefono al quale rivolgermi; ho telefonato senza neppure sapere esattamente chi stessi chiamando. Al telefono ho detto che stavo soltanto cercando informazioni su mio figlio, poi ho chiamato anche tutti gli ospedali di Sebastopoli e uno a Mosca. Ho chiesto se ci fossero soldati feriti all’ospedale che non ricordassero il loro nome; mi hanno risposto di no, che non ce n’erano. Poi è caduta la linea, e non sono più riuscita a contattare quel numero. La stessa cosa è successa quando ho contattato il Ministero della difesa. Lì mi hanno detto che mio figlio era disperso in combattimento. Ancora, dopo la telefonata quel numero risultava per me “irraggiungibile”. Ora non so che fare. Mi recherò lì di persona. Ho raccolto tutte le foto dei suoi commilitoni [NdR: gli altri soldati di leva dispersi, le cui informazioni sono trapelate online]; oggi le ho stampate ed etichettate. Andrò in tutti gli ospedali e farò tutto il possibile. Se non troverò mio figlio, spero almeno di trovare quello di qualcun altro, essere d’aiuto alle altre madri. Non so davvero che altro fare. Non posso starmene a casa, ma mi pare evidente che nessuno mi dirà niente. I comandanti ripetono tutti la stessa cosa, e cioè “disperso in combattimento”, ma non dicono dove. Dove è stato disperso? In mare? A terra? Nessuno mi sa spiegare le circostanze, nessuno dice nien­te sui feriti né sui dispersi. Ho raccolto tutte le foto che potevo online, ho scritto a tutti i gruppi possibili. Ora mi toccherà andare a bussare a qualche porta.

Yulia Tsyvova, madre del soldato di leva Andrey Tsyvov, 19 anni
Non riesco ad avere informazioni su mio figlio. Nessuno mi dice niente. Abbiamo chiamato l’ufficio di reclutamento, il Ministero della difesa… In tv hanno fatto vedere tutti i marinai schierati, in fila sul ponte [NdR: il 16 aprile, il Ministero della difesa russo ha diffuso un video del comandante in capo della marina russa che si incontra con i marinai del Moskva]. Ma chi c’era in quella fila? Ancora deve essere chiarito. Certo non i nostri figli. Ho guardato le foto pubblicate in vari gruppi, quelli in cui si cercano gli scomparsi: ne circolano già più di dieci.
Vivo a Lenino, un piccolo paese della Crimea. Il giorno dopo l’attacco al Moskva sono andata al distretto militare di Sebastopoli. Hanno tirato fuori una lista dei dispersi, un’elenco lunghissimo, saranno state una trentina di persone. Nessuno ci ha mostrato altre liste. Ho chiesto loro di spiegarmi che significhi “disperso in combattimento”. Vuol dire che mio figlio è morto? Hanno detto di no; semplicemente, non si trova né in servizio, né in ospedale. E allora dov’è?
Mio figlio era un soldato di leva, e su quella nave ce n’erano molti. Sono sicura che a bordo del Moskva ce ne fossero tra i duecento e i trecento. [NdR: Meduza non è in grado di confermare questa stima]. Erano continuamente dispiegati in zone di guerra. Nessuno di noi chiedeva mai nulla; tornavano per tre, quattro giorni, e poi venivano mandati di nuovo lì per un’altra decina di giorni.
Quando ho saputo che andavano a combattere non mi sono rivolta a nessuno, non ho fatto nulla. Mio figlio era in servizio su quella nave e temevo che potessero ritorcersi su di lui, torturarlo, o cose del genere. E così siamo rimasti in silenzio.
(traduzione di Stefano Ignone)