Toni Mazzetti, naturalista, ha insegnato fino allo scorso anno Matematica e Scienze nella scuola media di Este. Esperto della flora dei colli Euganei, ha condotto ricerche e scritto libri su diversi aspetti naturali e antropici dell’area. Racconta le storie della terra e degli uomini che l’hanno abitata; guida percorsi di attraversamento e di nuova confidenza con il territorio.
 
I colli Euganei sono un po’ il “fossile guida” della tua vita, da quando ti accompagnano?
Fin da quando ho memoria. Sono nato in una famiglia operaia, sette anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La casa apparteneva allo Zuccherificio di Este: davanti, lo stabilimento con la grande ciminiera di mattoni rossi; dietro, il campo di mais chiuso dagli argini del Bisatto. Nei pomeriggi d’estate la spiaggetta del canale era il ritrovo della gioventù e nell’acqua trasparente noi piccoli sguazzavamo fino allo sfinimento. Il rapporto con l’acqua era naturale: saper nuotare, resistere sott’acqua e fare tuffi, abilità che creavano gerarchie. Poi prendevamo il sole beati guardando i profili dei colli Euganei, misteriosi per forme e boschi: m’incantava la morbida gobba di un colle con un ciuffo di cipressi, dietro al quale si alzava un cupolone scuro. Eravamo abbronzati e selvatici. Costruivamo rifugi sui pioppi e tane dentro l’argine dove leggere i fumetti di Blek Macigno e Capitan Miki. Di mattina il ritrovo era al Patronato della parrocchia. Nel campetto di terra giocavamo partite infinite che spesso terminavano in zuffe. Così son cresciuto all’ombra della ciminiera e del campanile. Le estati erano lunghe e luminose in quel mondo ordinato e chiuso. Poi, improvviso, venne il vento del Vaticano II, portato dal Papa buono di origine contadina. L’aria cambiò anche dentro le mura del Patronato. I nostri preti di campagna, colti alla sprovvista dalle aperture conciliari, rimasero perplessi e il loro paternalismo divenne più rigido e guardingo. Erano comunque anni di innocente leggerezza, di ottimismo economico dopo il peso del Ventennio e la faticosa ripresa postbellica. Dalle finestre veniva il canto delle donne intente alle faccende domestiche e per strada gli uomini fischiettavano passando in bicicletta. Nel tinello accanto alla cucina c’era bene in vista il piatto con le facce rassicuranti di Papa Giovanni e del presidente Kennedy. Educato a essere un bravo bambino ubbidiente, iniziando l’adolescenza sorsero dubbi e incertezze e qualche domanda impertinente su quel mondo in apparenza perfetto e immutabile.
Sentivo il bisogno di uscire dalla stretta sorveglianza domestica e parrocchiale. È bastato alzare la testa: i colli Euganei erano lì nella loro selvatichezza da scoprire. Cominciarono le prime gite, invitando anche le ragazze: lasciavamo le biciclette in qualche famiglia ai piedi del colle e si saliva eccitati ascoltando la musica beat. Sui prati, seduti in cerchio, si parlava dei fatti del Patronato, dei rapporti con i genitori e di come ci appariva il mondo, ma non ancora d’amore, per pudore e forse per paura. Commentavamo le notizie sulle proteste del Maggio francese e -al di là della Cortina di ferro- della Primavera di Praga. Erano discorsi senza esperienza, più grandi di noi, ma in quegli spazi aperti appena guadagnati c’era fantasia e veniva coraggio per pensare.
Poi sei diventato un naturalista.
Nel 1971 mi iscrissi a Scienze Naturali all’Università di Padova. Era una facoltà piccola a maggioranza femminile. Trovai il mondo universitario ancora goliardico, effervescente e solidale, politicamente colorato e duro, con bella gente che insegnava la storia naturale della Terra. Non avendo fatto il liceo, ero poco preparato, ma durante gli esami cercavo ogni possibile aggancio per parlare di quello che già sapevo dei colli Euganei. Studiavo la geologia, la botanica, l’ecologia degli habitat e la loro evoluzione nel tempo. Studiavo e poi andavo a cercare conferme nei boschi e nelle cave dei colli. Era uno studio accademico e al tempo stesso autodidatta.
Furono anche anni di impegno politico. Mi iscrissi al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Alla domenica si faceva la vendita militante del Manifesto sotto i portici della piazza. Non era cosa ben vista in un paese clericale a maggioranza democristiana, dove la sensibilità politica di fondo era decisamente di destra. Lavoravamo con passione per sensibilizzare operai e studenti e alla fine di quelle riunioni piene di fumo, dopo aver discusso le infinite ...[continua]

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