Beatrice Boninelli, 21 anni, catanese, vive e studia a Forlì.

Sei andata a studiare in Tunisia. È stata una scelta o ci sei finita per caso?
Sono partita nel 2019 per trascorrere un anno di studio in Tunisia, con un progetto di Intercultura, un’associazione no-profit fondata sul volontariato che offre soggiorni di studi all’estero con delle borse di studio. Questo è stato fondamentale, perché senza quelle borse di studio non sarei potuta partire. Quando fai la richiesta per partecipare, devi anche scegliere alcune destinazioni. Io volevo andare in Cina; potevo indicare al massimo una decina di scelte. Naturalmente chi mette più scelte, ha poi più possibilità. Avevo segnalato nove paesi, mancava il decimo e i miei genitori la sera prima della consegna di tutto il fascicolo della mia domanda, mi hanno chiesto: “Perché non aggiungi la Tunisia?” Ho risposto che era un paese che non mi interessava, che non ci volevo andare. Poi alla fine l’ho inserito, anche perché nel fascicolo c’era qualche foto carina... Sono passati alcuni mesi e infine sono usciti questi benedetti risultati. Ricordo che ero sola a casa, forse l’unica volta che è successo, apro e leggo che sono vincitrice di una borsa di studio totale per la Tunisia. Mi sono sentita mancare veramente il terreno sotto i piedi e ho iniziato a piangere, perché era una situazione surreale: da una parte avevo vinto l’unica borsa di studio totale per l’Africa ed era un onore, dall’altra la Tunisia era veramente l’ultima delle mie scelte, in tutti i sensi. Così fino all’ultimo ho pensato di non partire. Non  me la sentivo, non avevo curiosità. Poi però facendo gli  incontri di formazione con gli altri ragazzi che dovevano partire, non so… Avevo anche in un certo senso un obbligo morale, qualcun altro sarebbe voluto andare con questa borsa di studio e io la rifiutavo? Alla fine ho deciso di partire. Ed è stata la scelta migliore che potessi prendere.
Come è stato l’impatto?
È stato forte. La prima settimana sembrava di essere in vacanza. Era fine agosto, era caldo, c’erano questi paesaggi bellissimi di mare, eravamo tutti assieme, era bello. Poi arrivi dalla famiglia ospitante e dopo alcuni giorni cominci a capire che non è una vacanza. Io che me ne ero andata dall’Italia, dalla Sicilia, perché non ne potevo più, all’improvviso mi mancava tanto. Volevo tornare a casa. Innanzitutto c’è il problema della lingua. In casa, i miei fratelli ospitanti parlavano inglese ma non benissimo, mio padre ospitante qualche parola di francese e poi tunisino, mia madre ospitante solo tunisino.
Comunicavamo a gesti. Quindi non era semplice. Poi c’era la questione del cibo, che era buonissimo, infatti ho preso otto chili, però all’inizio non capivo nemmeno cosa stavo  mangiando. E sono diventata molto dipendente dalle persone mentre in Italia non lo ero per nulla. Avevo bisogno di qualcuno per andare al supermercato, per fare qualsiasi cosa perché non sapevo parlare, non sapevo gestire i soldi e così via... Poi dopo un mese cominci a orientarti di più, ci sono ancora degli ostacoli, però li riesci a superare. Anche a scuola all’inizio non conosci nessuno, arrivi in una classe già formata, ti devi presentare, affrontare i pregiudizi che hanno gli altri nei tuoi confronti, oltre a quelli che hai tu verso di loro. Quindi l’impatto è stato sicuramente forte. Poi alla fine ho pianto di più per tornare in Italia di quando sono partita.
La famiglia ospitante com’era, numerosa?
Abbastanza. Le famiglie ospitanti sono volontarie, quindi non vengono pagate, lo fanno veramente per uno spirito di socialità e accoglienza che è bellissimo. La mia era composta da padre e madre con un’età tra i sessanta e i settant’anni, quattro figli,  due maschi e due femmine, tutti di un’età superiore ai venticinque anni. Non c’era nessuno della mia età e però vivevano tutti insieme nella stessa casa. Solo il figlio maggiore, Ahmed, di 31 anni, lavorava nel deserto, in uno stabilimento di gas, quindi restava fuori per due settimane e poi tornava a casa per altre due. Poi c’era la sorella più grande, Meriem, che lavorava di notte, aveva i turni in ospedale, quindi diciamo che non eravamo sempre costantemente tutti in casa. Ma la famiglia era composta anche dai cugini, gli zii, gli zii dei cugini, a tutte le ore c’era gente che passava anche solo per un saluto, per lasciare dei datteri che avevano raccolto, per chiacchierare oppure per cenare tutti assieme. A volte a cena per esempio ci mettevamo a ...[continua]

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