Giuliana Gemelli, già professoressa alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, è la fondatrice della “Fondazione Grande Giù per l’Umanizzazione della cura” che ha sede a Forli e in Friuli e si avvale della collaborazione di due illustri clinici, il professor Francesco Lanza, ematologo, direttore dell’Uo di Ematologia dell’Ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna e il dottor Maurizio Mascarin, fondatore dell’Area Giovani dell’Ospedale di Aviano e Direttore della Radioterapia oncologica nello stesso ospedale. La Fondazione ha inaugurato la sua attività organizzando e finanziando il convegno tenutosi a Forlì il 9 febbraio scorso intitolato “Le radici dell’umanizzazione della cura. Maimonide: la cura, la pace e il Mediterraneo”.

Partiamo da Maimonide, a cui avete dedicato questo importante convegno a Forlì. Chi era?
Per il mondo ebraico Maimonide è un eroe, un eroe di pace, e un grande teologo e filosofo, oltre che giurista e ispiratore di un profondo rinnovamento della filantropia ebraica. Nel nostro convegno che presto diventerà un libro Maimonide è soprattutto un grande medico, il medico che ha creato un approccio olistico alla cura e dunque colui che per primo ha generato i percorsi della medicina umanizzata alla quale ci ispiriamo e che ci ha portato a creare una fondazione.
Maimonide è vissuto nel XII secolo e ha sempre lavorato come medico fino a esaurire tutte le sue forze. Muore all’inizio del XIII secolo, nel 1204. È figlio di un rabbino, che è anche uomo di cultura, filosofo, giurista e astronomo. Nasce a Cordoba, perla dell’Andalusia, e vive i primi anni della vita nella pace, fino all’arrivo dei berberi, evento che costringe lui e la sua famiglia a fuggire e a peregrinare nel Mediterraneo. Così attraversa il Maghreb arrivando a Fes, dove si forma in Medicina in una delle prime scuole mediche del Medioevo, arriva a Gerusalemme, poi lascia anche Gerusalemme e infine approda a Fustat, uno dei quartieri più antichi del Cairo. In questo lungo viaggio affronta anche un naufragio che causa la morte di parte della sua famiglia e la perdita di tutti i suoi averi. Lui però, che a Cordoba prima ancora che in Marocco aveva studiato medicina, quando arriva a Fustat viene accolto come medico dagli alti funzionari e del Saladino stesso di cui diventa il “medico di famiglia”. Ma non fa solo questo. Comincia a curare anche i poveri e lo fa in un’area antica e anche un po’ fatiscente del Cairo. Lavora a ritmo forsennato, anche di notte, tanto che riceve pazienti disteso su un divano perché a notte fonda non ce la fa più a stare in piedi per la spossatezza. Nel frattempo coltiva i suoi studi teologici lavorando a quella che diventerà la sua opera principale intitolata La guida dei perplessi, in cui cerca di costruire un percorso per unire in modo indissolubile religione e scienza, che trovi nella medicina un punto di coagulo molto importante. È il periodo anche di San Tommaso, e non dimentichiamo che anche lui viene in qualche modo isolato e perseguitato. Anche Maimonide non gode delle simpatie dell’establishment religioso ebraico, anche perché ha una formazione araba, sia per lingua che per cultura.
È vicinissimo ad Averroè, ha studiato Avicenna, parla l’arabo e scrive in arabo come anche in ebraico e quindi appartiene perfettamente e pervicacemente a due culture se non a tre, perché conosce molto bene anche il mondo e la cultura ellenistica che a Cordoba era diffuso e radicato. Quindi è un uomo che non ha mai dimenticato la sua appartenenza alla cultura e alla fede ebraica, anche se il suo obiettivo era quello di unire scienza, religione e fede. Anche San Tommaso ha un profilo di questo genere, pensiamo al libro di Panofsky Architettura gotica e filosofia scolastica che considero una sorta di teorema di Gödel delle scienze umane. Ecco, laddove San Tommaso ha unito in modo straordinario architettura e filosofia scolastica, Maimonide unisce medicina e scienza, fede e religione.
Qual era la sua visione della medicina?
Era una visione della medicina fondata sull’umanizzazione della cura. Una visione, quindi, che oggi è ridiventata cruciale, in opposizione a un altro percorso, uguale e contrario, quello della tecnicizzazione estrema della medicina. In Maimonide “cura” e “prendersi cura” vanno nella stessa direzione, perché lui vede l’aspetto della cura dell’anima e del benessere psicofisico come un elemento cruciale del percorso di guarigione. Quindi la ricerca della medietas, che poi è la radice stessa della parola “medicina”, è la ricerca di un equilibrio che quando si spezza provoca le condizioni perché si origini la malattia. C’è qualcosa in questo approccio che evoca le radici lontane della medicina psico-somatica. La malattia non può essere curata solo con i farmaci, ma anche con la vicinanza del medico al paziente, che è innanzitutto una persona.
Quindi Maimonide sviluppa un’attenzione specifica all’alimentazione, all’igiene, all’equilibrio mentale, cose che oggi sono diventate normali ma che, per l’epoca, erano assolutamente straordinarie; poi si occupa della costruzione di luoghi di accoglienza per i pellegrini, gli hospes, che poi nel tempo si sono trasformati in scuole di medicina. In questi hospes si praticava l’aromaterapia, la cura attraverso i profumi, la creazione di ambienti naturali in cui si godeva della bellezza e della pace della natura. Questo oggi rievoca incredibilmente il modello dell’hospice per le cure palliative. Il bisogno di trovare pace, serenità, in un ambiente assolutamente protettivo ed equilibrato. Oggi per fortuna l’hospice non è solo il luogo per la cura dei malati terminali, ma anche un posto dove prendersi cura di chi attraversa le varie fasi della malattia, quindi dove si prestano anche cure palliative anticipate, nel percorso della malattia stessa. Maimonide aveva avuto questa intuizione straordinaria che derivava dalla sua visione integrata della cura e del prendersi cura. Quindi qualcosa di assolutamente moderno che lui poi trasmetteva ai giovani medici. Abbiamo alcuni documenti, non sappiamo con certezza se siano autentici, ma probabilmente lo sono; per esempio ce n’è uno intitolato “Preghiera per un giovane medico”. Maimonide ha lasciato tante testimonianze, anche di proverbi (questo fa parte della tradizione ebraica) e anche opere filosofiche di grande rilevanza. In questo senso Maimonide è un maestro non solo nel suo tempo ma per molte generazioni.
Ho appena finito di scrivere un breve articolo su “Economy” rivista con cui collaboro, proprio sui medici dei poveri. Maimonide non era solo un medico dei poveri, era anche il medico del Saladino, ma gli indigenti che lo hanno seguito venivano curati gratuitamente. Come faceva d’altro canto Mortara o il medico che viveva al Cairo, morto pochi mesi fa, che si chiamava Mustafà, non ricordo il cognome, un vecchietto tutto accartocciato su se stesso, magro, piccolino che curava gratuitamente le persone delle aree più povere.
Un Maimonide dei nostri tempi. Ma poi ce ne sono tanti di cui le storie andrebbero raccontate.
C’è un altro aspetto di Maimonide che va ricordato ed è il Maimonide fondatore degli otto principi della filantropia. Cioè, una sorta di visione articolata e ricchissima del modo di donare, non solo per un formalismo imposto dalla religione ebraica nella Sadaqah, che è in fondo un donare in rapporto alle ricchezze, al reddito, ma anche per dare un contributo all’esistenza, al rafforzamento della comunità.
Si parte da un livello minimo e quasi formalizzato per arrivare a un livello di donazione che si chiama Gemilut Hasadim, che è un modo di donare con il cuore, con l’anima, per far sì che la persona che ha bisogno non si ritrovi isolata e, di fatto, esclusa dall’appartenenza alla comunità ma che ne diventi, invece, parte integrante. Con una partecipazione diretta e costante del donatore che noi ritroviamo oggi nell’agire delle grandi fondazioni: il donare non solo attraverso assegni o versamenti di denaro, ma anche attraverso la capacità di far crescere le istituzioni, le associazioni, le persone e portarle a un livello di integrazione nella comunità stessa. Gli stessi Francescani, accusati infatti di essere troppo vicini agli ebrei, seguivano questi principi: dare una mano ai poveri in modo da farli crescere e integrarli nella comunità. Anche le origini del microcredito sono proprio lì.
Tu hai scritto di questo anche in relazione ai migranti…
Sì, mi ero permessa di scrivere un articolo su questo, mettendo questi temi in relazione ai migranti. L’idea era quella di utilizzare un percorso nettamente maimonideo. I giovani che arrivano nei barconi, spesso sono malati e alcuni hanno bisogno di cure, di usare, e sottolineo “usare”, il percorso della cura come percorso anche di integrazione. Curare per integrare. Fare in modo che la cura diventi uno strumento di integrazione e di partecipazione e interazione culturale. Non ho presentato questo progetto per varie ragioni legate ai tempi della politica di alcuni anni fa però l’ho incluso in un libriccino intitolato Generosamente, era un progetto che secondo me avrebbe avuto un senso perché ho visto cosa stanno realizzando i medici dell’associazione ebraica di Milano che mette insieme il mondo cattolico e il mondo ebraico con la volontà di fare dell’interculturalità un vettore, un elemento attrattore rispetto ai percorsi di cura. Una cura che deve rispettare l’appartenenza del paziente. Quindi i suoi bisogni spirituali. E questo era quello che Maimonide insegnava.
C’è un’ultima cosa che vorrei dire, che è particolarmente significativa, sempre sulla continuità di Maimonide, dei suoi otto principi della filantropia. In particolare l’ottavo, quello appunto di cui parlavo, dell’integrazione consapevole, partecipativa, ha un ruolo molto importante in un periodo terrificante della storia: nel ghetto di Varsavia durante l’occupazione nazista. Qui viene messo in pratica l’ottavo principio della filantropia maimonidea, l’integrazione delle persone ai margini, dei più poveri tra i poveri, da parte di quelli che pure erano in una situazione drammatica e di disperazione. La ricerca di una integrazione che può lenire il male estremo.
Ci sono stati moltissimi libri su Maimonide, tantissime pubblicazioni. Quello che però è stato meno considerato è l’aspetto della modernità assoluta di Maimonide, rispetto ai messaggi che emergono oggi nel mondo della cura, che spesso sono messaggi antagonisti: da un lato la disumanizzazione della cura, e lo sappiamo, dall’altro però una forte spinta ideale verso percorsi di umanizzazione. È quello che noi ci proponiamo di portare avanti avendo da una parte un’associazione che opera all’interno del nostro punto di riferimento che è l’ospedale Santa Maria delle Croci di Ravenna, col professor Lanza, con attività di laboratori dedicati a giovani adulti, e dall’altra organizzando percorsi invece più di tipo culturale e di visione come questo convegno che c’è stato a Forlì e altri che progetteremo nei prossimi tempi. In questa occasione abbiamo cercato di mostrare la modernità e la continuità della visione maimonidea, cosa che si traduce anche in un impegno nel praticare l’interculturalità, l’inter religiosità, seguendo la visione meravigliosa di Rav. Giuseppe Laras, che è stato, insieme al cardinal Martini, una figura imponente della riflessione sulla religiosità e le sue forme di comunicazione e di condivisione.
Tutto questo riguarda l’intera società, non solo il problema delle malattie e delle cure...
Assolutamente sì. C’è una biforcazione coesistente nella nostra società, che è disumanizzazione verso umanizzazione. Nel corso dei secoli ci sono sempre state. Si sono tanto valorizzati il Rinascimento e l’Illuminismo, ma non sono convinta che l’Illuminismo sia stato portatore di questi valori. Io penso che c’è altro, e questo altro nasce nel momento in cui finiamo di considerare l’antropocentrismo come “il modello”, e cominciamo a guardare alla natura. Ecco, un altro elemento di Maimonide era la considerazione dell’ecosistema e la valorizzazione della natura come elemento fondante di questa integrazione dell’uomo verso la ricerca dell’equilibrio. E questo oggi sta rinascendo, per esempio nell’amore per gli animali...
Anche il rapporto con l’animale sta passando come aiuto alla cura.
Esattamente! Hai toccato il punto del lavoro che abbiamo svolto con il prof. Lanza: degli interventi assistiti con gli animali come elemento di integrazione per un sentire che non è puramente razionale, ma è anche basato sull’empatia, sulla condivisione, sulla comprensione, sulla sensazione. C’è una rinascita della filosofia della natura da parte di una giovane generazione di filosofi, Emanuel Cossa, per esempio, che insegna a Parigi, e altri...
C’è anche un grande studioso, che è James Illmann, psicanalista e filosofo, scomparso 40 anni fa, purtroppo, un uomo straordinario, che ha proprio lavorato su questo ruolo degli animali come evocatori di un pensiero profondo. In Maimonide questo elemento non compare, però compare quello della natura che è fondamentale. L’equilibrio, il principio della medietas, non può esistere se non c’è un rapporto di affinità, interazione con la natura.
Un passo indietro sul piano più prettamente politico. Non può influenzare anche una concezione del welfare che in parte o in gran parte è ancora puramente solo di aiuto, ma in realtà dovrebbe servire non a cronicizzare la debolezza ma a rimettere in piedi…
Esatto, questa è la visione dei francescani quando parlavano dei “Pauperes pinguiores”, queste sono le origini del microcredito. Fare in modo che non ci sia una passività ma una compartecipazione in cui la riflessività, la responsabilità, la consapevolezza agiscano da elementi condivisi. Cioè, il benessere non deve essere portato esclusivamente attraverso finanziamenti o supporti passivi, deve essere condiviso in una crescita comune che poi porti a risultati condivisibili e divisibili anche, non nel senso del denaro ma nel senso delle responsabilità e dei benefici.
C’è un’opera di Seneca che ricorda un aspetto triste della filantropia, quando accade che chi riceve non solo non è grato, ma odia il suo benefattore. Sono queste cose che ti fanno capire come la non-condivisione sia letale anche nella donazione, e come il welfare puramente passivo possa provocare poi questo tipo di effetti.
L’esserci significa partecipazione. Questo va molto lontano nel discorso politico. La partecipazione non esiste più, è diventata consumo. Io consumo eventi, percorsi, persino persone, sfruttandole, strumentalizzandole, non valorizzandole, e questo è il protagonismo alla rovescia, non quello costruttivo ma quello puramente egocentrico, autoreferenziale e quant’altro.
Qui torna anche il discorso se vuoi del socialismo fabiano, quello che ha generato movimenti nella nostra società. Fasi evolutive importanti. Chi genera capacità evolutive è qualcuno che poi lascia il segno, perché noi in realtà questi personaggi non possiamo dimenticarli. Io ho avuto un grande maestro, Rav. Giuseppe Laras, che oltre ad avermi sostenuto umanamente in un periodo drammatico della mia vita mi ha portato verso Maimonide. Mi ha fatto scoprire un percorso straordinario che oggi, nei nostri drammatici giorni, rappresenta un messaggio di possibile condivisione di una visione di cura, benessere, coesistenza e pace.
(a cura di Gianni Saporetti)