Konstanty Gebert è scrittore e giornalista per il quotidiano polacco “Gazeta Wyborcza”. È stato corrispondente di guerra nei Balcani e advisor del Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani nei territori dell’ex Yugoslavia Tadeusz Mazowiecki. È stato giornalista clandestino di Solidarnosc, partecipa a think tank europei ed è attivo sulle questioni ebraiche.

Ti avevamo intervistato all’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e tu ci avevi parlato di una Polonia dai tratti inediti, molto accogliente. Nel frattempo è cambiato il governo. Qual è ora la situazione?
Potrei dire che la situazione è esaltante, perché è il primo esempio della sconfitta dei populisti autoritari, dopo quella di Trump. Quest’ultima purtroppo oggi rischia di essere stata solo provvisoria. Invece noi, spero, ce l’abbiamo fatta. Detto questo, rimane il problema che aveva descritto Walesa nell’89, usando questa metafora: è facile trasformare un acquario in una zuppa di pesce, ma come si fa a riconvertire la zuppa di pesce in acquario? Cioè come si ritorna a un sistema democratico, dopo quarantaquattro anni di comunismo, sei di guerra e tredici di dittatura della destra? Noi oggi abbiamo una situazione più semplice: il governo della destra è durato soltanto otto anni. Il dato comune è che in entrambi i casi, contrariamente a quanto ci si poteva immaginare, gli sconfitti hanno accettato il loro fallimento. Nell’89 si temeva un tentativo di reazione; c’erano questi timori diffusi, però alla fine la sconfitta venne accettata. C’è però anche una differenza importante: nell’89 anche i perdenti pensavano che la sconfitta fosse una cosa buona, che il sistema comunista avesse fallito e che non ci fosse nulla da salvare. Questa opinione era condivisa da tutti i ceti della società. Anche una parte degli ex comunisti, per motivi civici e patriottici, sostenevano la trasformazione. Invece, oggi la destra, anche se battuta, ritiene di avere nelle proprie file i veri leader del paese. Un 25-30% della popolazione pensa che il governo di “Diritto e Giustizia” sia stata la cosa migliore per la Polonia e lo rivuole. Quindi abbiamo una divisione profondissima dentro la società. Questa spaccatura fa pensare a situazioni simili in Turchia, in Israele, negli Stati Uniti. Qui non parliamo di una semplice alternanza politica, ma della distruzione del mondo, perché qui si tratta per entrambi di “noi” e “loro” e il mondo dove “loro”, gli altri, sono al potere è inaccettabile. Io poi credo che la profondità di questa divisione sia causata anche dalla presenza della religione nella vita pubblica.
Nella religione non c’è compromesso: o stai dalla parte degli angeli o da quella dei demoni. Temo che gran parte della società polacca la veda in questo modo. Di qui anche una certa aspirazione alla vendetta anche da questa parte: non basta essere al potere e che la destra sia all’opposizione, bisogna “fargliela pagare”, così impareranno e non minacceranno mai più la democrazia. Allo stesso modo loro parlano del 13 dicembre, data in cui si è insediato il nuovo governo, come di un “incidente” e dei vincitori come dei “nemici della sovranità polacca”. Ecco, cosa si può fare per colmare l’abisso che si è aperto? Perfino sulla questione dell’Ucraina, il primo ministro e il presidente non hanno rilasciato una dichiarazione comune. Era psicologicamente impossibile. Poi il 12 marzo sono stati invitati alla Casa Bianca. Normalmente Biden non invita i primi ministri, in questo caso invece sono stati chiamati il primo ministro polacco insieme al presidente e questo per mandare un messaggio chiaro: “Le vostre guerriglie non ci interessano, ci interessa l’appoggio per l’Ucraina e dobbiamo essere certi di poter contare sulla Polonia”. Entrambi sono assolutamente d’accordo sulla necessità dell’appoggio della Polonia, dell’Europa, della Nato, del mondo intero all’Ucraina, però non riuscivano a dichiararlo insieme, l’hanno fatto per la prima volta a Washington.
Qual è il lascito del governo di destra?
La destra ci ha lasciato uno stato profondamente corrotto, stiamo scoprendo scandali che davvero tolgono il fiato. Durante la pandemia il Ministero della salute ha dato milioni di Zloti a un commerciante di armi (presente in una lista nera dell’Onu), per acquistare da lui dei respiratori poi risultati inutilizzabili; non solo: sono state acquistate, da un produttore suggerito dall’istruttore di sci del ministro, delle mascherine cinesi non omologate.
Così funzionava lo stato. Ci fosse stato solo un problema di corruzione causato dalla venalità di qualcuno si poteva risolvere il problema espellendo questi elementi. Il fatto è che l’intero apparato era corrotto. Per esempio, il Ministero della giustizia ha comprato Pegasus, il programma software israeliano per controllare i telefoni cellulari in nome della lotta contro la criminalità organizzata. Nessuno ha mai identificato un solo criminale con questa tecnologia, invece sappiamo che sono stati sottoposti a Pegasus diversi politici dell’opposizione e membri del governo con posizioni critiche. Questo strumento è stato utilizzato fin dall’inizio contro i nemici del partito al potere. Pegasus tra l’altro è stato comprato usando soldi di un fondo di aiuto per le vittime dei crimini, un fondo costituito dal governo precedente di cui pare non abbia beneficiato alcuna vittima.
Abbiamo avuto questo stato per otto anni, abbiamo ancora migliaia di giudici nominati da un consiglio supremo della magistratura illegale, perché anticostituzionale: la corte che ha validato quel consiglio supremo è stata dichiarata illegittima dall’Unione europea.
Sotto il primo governo di Diritto e Giustizia c’è stato un tentativo di screditare il vice primo ministro di un partito alleato. L’operazione è fallita, c’è stato un processo contro il ministro e il capo dei servizi, che sono stati condannati a tre anni di prigione per abuso di potere. Il primo atto del presidente Duda, eletto nel 2015, è stato di perdonare questi due personaggi. Ovviamente l’atto è stato contestato: non si può perdonare qualcuno che non è ancora stato condannato. Un mese fa questi due signori avrebbero dovuto andare in prigione, invece hanno cercato rifugio all’interno del palazzo presidenziale, dove sono stati arrestati con un’azione abbastanza complicata perché occorreva che il presidente non si trovasse all’interno del palazzo perché la polizia potesse entrare e catturarli.
Hanno trascorso due settimane in prigione fino a che il presidente ha accettato il fatto di doverli perdonare di nuovo, e questa volta legittimamente perché a quel punto erano stati condannati senza appello.
Come dicevo, lo stesso Consiglio supremo della magistratura è illegittimo perché i suoi membri, che a loro volta nominano i giudici, sono eletti da parlamentari, quindi non possono essere considerate figure indipendenti.
E ora che cosa ce ne facciamo di circa tremila giudici? Li licenziamo tutti? Cioè facciamo una purga come hanno fatto loro? Li lasciamo dove sono sancendo che la legalità è trattabile? È un bel problema! Certo si potrebbe far passare una legge che invalida quel nuovo consiglio, ma il Presidente la fermerebbe perché ha il potere di veto. E il nuovo governo non ha la maggioranza del 60% di deputati necessaria per abolire questo veto. Il Presidente, da parte sua, ha dichiarato che visto che quei due, che lui ha perdonato, non possono esercitare la carica di deputati (perché la legge polacca non lo consente), il Parlamento non è legittimo, perciò lui intende mandare ogni provvedimento al Tribunale costituzionale, che è composto soltanto da persone del vecchio regime.
Anche qui: cosa facciamo? Diciamo che il veto del Presidente non vale? Lasciamo le cose come stanno? Ecco, noi siamo in questa situazione.
Ci vorrebbe una rivoluzione, un cambiamento radicale, dopodiché bisognerebbe votare una nuova Costituzione che permetta ciò che quella attuale impedisce.
Fino a che il potere si occupa solo della sua base elettorale e non si interessa a ciò che vuole il 30% della popolazione che è all’opposizione, formalmente sarà un potere democratico certo, ma è destinato a perdere la sua legittimità. Qui però torniamo alla questione iniziale: come si possono fare accordi con gente che ci considera peccatori e nemici della Polonia?
Ulteriore problema: questa maggioranza, che in una situazione normale sarebbe assolutamente sufficiente per governare, è insufficiente a far passare la legge più urgente, quella per ristabilire il diritto all’aborto. L’opposizione ha vinto le elezioni perché ha votato il 76% della popolazione, una cosa mai vista nella storia polacca! Questi nuovi votanti erano soprattutto donne e giovani che volevano vedersi restituito il diritto alla interruzione volontaria di gravidanza. Donne di destra che non amano i liberali, per non parlare della sinistra, ma che avendo delle figlie volevano tutelarle. Sono morte delle donne per colpa di questa legge. Qui non si tratta soltanto di libertà sessuale, ma di vita e di morte.
C’è un terzo partito nella coalizione che si chiama appunto Terza Via, democratico ma conservatore, che fin dall’inizio ha dichiarato molto onestamente che non avrebbero sostenuto la liberalizzazione dell’aborto senza un referendum. Ora rifiutano di appoggiare i due progetti di legge proposti dalla sinistra e dai liberali. Senza il loro voto, la legge non può essere varata, e comunque il presidente porrebbe il veto. Ha già detto che considera l’aborto un assassinio. Così abbiamo già avuto una prima manifestazione antigovernativa di donne, il fattore decisivo della vittoria della coalizione, e lo slogan era: “Brave lo siamo già state”.
Ma non è l’unica dimostrazione antigovernativa che c’è stata. Alcune decine di migliaia di sostenitori dell’ex partito al potere, Diritto e Giustizia, all’indomani del nuovo governo, in un giorno d’inverno con una temperatura di meno dieci, sono scesi in strada: non è un risultato da poco. Sono nostri cittadini. Anche se sono in disaccordo profondo con tutto quello in cui credono e vogliono, resta il fatto che sono cittadini come me, con gli stessi diritti. La reazione del governo è stata pacata, non abbiamo visto alcuna azione repressiva, come avveniva sovente con il governo precedente, ma nessuno può ignorare una tale dimostrazione di protesta.
Poi ci sono le rimostranze dei contadini, come altrove in Europa, contro l’importazione di beni agricoli dall’Ucraina, ma anche contro il Green Deal dell’Unione europea. Qui va però ricordato che il Green Deal è stato negoziato di comune intesa anche con la Polonia sotto il governo precedente. Ora loro sono in strada, insomma, stanno manifestando contro la loro stessa politica.
I contadini vorrebbero porre un embargo all’arrivo di prodotti agricoli dall’Ucraina, gli ucraini hanno anticipato che, nel caso, imporranno a loro volta un embargo alle merci in arrivo dalla Polonia. Qui bisognerebbe dire che l’export della Polonia verso l’Ucraina è cinque volte quello dell’Ucraina verso la Polonia.
La cosa interessante è che effettivamente i contadini polacchi stentano a vendere il loro grano sul mercato interno perché la Polonia continua a importare grano dalla Russia attraverso la Bielorussia, grano molto probabilmente rubato all’Ucraina. Tusk, il primo ministro, quando l’ha saputo, è andato su tutte le furie, non soltanto perché il fatto è vergognoso ma perché ne era all’oscuro. Ora stiamo varando una legge che lo impedirà, però insomma, non è stata una pagina gloriosa.
Rispetto all’Ucraina, tu già più di un anno fa, ci avevi parlato di questo slancio molto solidale, ma anche di tensioni latenti. Ora in Polonia ci sono molti rifugiati ucraini e la guerra continua...
Lo slancio non c’è più e questo è ovvio. Il fatto è che non si può costruire una politica di Stato esclusivamente su un slancio di generosità dei cittadini. Nel frattempo una parte dei rifugiati è partita per l’Europa occidentale. Alcuni sono tornati in Ucraina. Altri hanno trovato una sistemazione.
Gli ucraini in questi mesi hanno trovato impiego prevalentemente nei servizi: ormai non si può andare al ristorante se non si conoscono almeno alcune parole ucraine. È successo un po’ come per i polacchi in Inghilterra quindici anni fa. Si riscontra un aumento di episodi e azioni contro gli ucraini durante le manifestazioni organizzate dalla destra; uno degli slogan è “No all’ucrainizzazione della Polonia”, “No ai Bandera fascisti”; Bandera era il leader nazionalista ucraino. Questi slogan non suscitano un grande sostegno, ma nemmeno indignazione.
La maggioranza della società è indifferente. In più abbiamo un problema strutturale. Abbiamo tre milioni di ucraini, in un paese che formalmente conta trentotto milioni di abitanti, più verosimilmente trentacinque. Quindi verrà un giorno in cui gli ucraini saranno circa il 10% dell’intera popolazione. Nella seconda repubblica, tra le due guerre, erano il 15% e le cose non sono andate molto bene. Tra un anno, due al massimo, cominceranno, legittimamente, a chiedere diritti politici. Una grande maggioranza non tornerà in Ucraina, non soltanto perché non avranno dove tornare, ma perché si sono radicati in Polonia e vorranno rimanere e quindi avere un’influenza su quello che accade. Questo significa: cittadinanza per gli ucraini, un partito o più partiti ucraini in parlamento, la richiesta che la lingua ucraina diventi la seconda lingua ufficiale e così via... Quindi il ritorno del modello multietnico che ha fatto la forza della Polonia nel passato, ma è stato anche uno degli elementi della sua debolezza fra le due guerre. Non riesco a immaginare un solo partito politico che possa mettere la cittadinanza per gli ucraini nel suo programma elettorale. Allora che cosa succederà? Ci sarà una popolazione molto numerosa che riterrà che i propri diritti siano negati, che si considererà vittima e oppressa. Ci troveremo davanti al dilemma tra l’adattare il sistema statale a una realtà bietnica e la creazione di una underclass non rappresentata e non rispettata. Questa situazione necessiterebbe di un governo unito, illuminato e dotato della piena fiducia della popolazione. Cosa che non è. In più c’è la paura della Russia.
Cosa succede se l’Ucraina non sarà più il paese che sta in mezzo tra noi e loro, se smetterà di combattere? Nella nostra sinagoga ogni shabbat diciamo una preghiera per la vittoria dell’Ucraina, che sta combattendo per la sua libertà e per la nostra. E questo è un fatto. Se l’Ucraina perde, il che è una possibilità, avremo l’esercito russo non sulla frontiera orientale dell’Ucraina, ma sulla nostra frontiera. Siamo completamente impreparati a questa evenienza.
Il governo precedente ha speso delle somme vertiginose per comprare armi. Lo ha fatto in modo irresponsabile. Per dire, abbiamo quattro tipi di carri armati. Oltre ai carri armati sovietici e i loro cloni polacchi, abbiamo i Leopard tedeschi, che anche l’Italia usa. Abbiamo comprato, se non sbaglio, quattrocentocinquanta carri armati in Corea del Sud e compriamo ora anche gli Abrams americani.
A parte i carri ex sovietici, tutte queste tre linee, i Leopard, i coreani e gli Abrams, sono delle macchine eccellenti, ma ognuna richiede una logistica diversa. Il che significa che il costo di manutenzione sarà al di là delle possibilità del nostro Paese. Detto questo, è ovvio che da soli non potremmo resistere a un’aggressione russa.
Personalmente non credo che Putin voglia inviare i suoi carri armati a Varsavia e Stettino. Quello che verosimilmente succederà è che al prossimo oligarca russo che si presenterà per appropriarsi dell’industria petrolifera polacca, risponderemo: “Mangia qui o porta a casa?”. Finora abbiamo resistito a questo tentativo, ma se ci fossero nuove pressioni... Mi immagino l’ambasciatore russo che ci dice: “Vi fidate dell’articolo 5 della Nato? Beh, allora buona fortuna ragazzi!”.
La forza dell’articolo 5 è che non è mai stato messo alla prova. Gli americani sono sicuramente pronti a rischiare Washington per proteggere Londra, Parigi e forse Berlino e Roma, ma saranno disponibili a rischiare New York per salvare Varsavia? Non vorrei trovarmi nella situazione di doverlo verificare. Finora ha funzionato la deterrenza, ma oggi le garanzie della Nato non sono più considerate assolute e quindi è diventato lecito pensare ad altre soluzioni, ma il fatto stesso di ipotizzare altri scenari indebolisce ulteriormente quello che rimane delle soluzioni precedenti.
Come vedi l’Unione europea: riuscirà a costruire una sua politica estera, una difesa comune?
La volta precedente, quando l’Europa ha fatto quel salto, c’era stata una guerra costata più di cinquanta milioni di morti. Se non vogliamo che questo accada di nuovo, bisogna muoversi. Non sono sicuro che la paura della guerra sia una motivazione sufficiente. È chiaro che in tutti i paesi europei ci sono delle minoranze importanti, dei ceti influenti che sanno che, se l’Europa non diventa stato confederale, non sopravviverà a una possibile aggressione russa, alla competizione economica con la Cina, né agli Stati Uniti dei quali non si può più fidare. Però questa realtà scioccante non è ancora stata percepita. La gente ha una capacità tremenda di rifiutare di vedere la verità. Cosa è successo durante il Covid? Il movimento anti-vax era anche una reazione a quello shock. È un po’ quello che sta facendo l’Europa ora davanti a una situazione internazionale che veramente fa paura. Avendo la possibilità di una scelta libera, anch’io preferirei essere tra gli anti-vax politici, quelli che dicono: lasciamo le cose come stanno. Il fatto è che io vivo nella zona della pandemia, per continuare a usare questa metafora, non posso permettermi quel lusso. Qui non parliamo più di una posizione politica psicologicamente comprensibile, ma di una minaccia mortale per me e per i miei. Credo sia abbastanza chiaro quale dovrebbe essere la riposta, il fatto è che forse non abbiamo ancora sufficientemente paura.
Visto che abbiamo allargato lo sguardo al mondo, ti volevo chiedere: nel frattempo c’è stato anche il 7 ottobre. Come vedi la situazione?
Penso che sia importante pensare a ciò che è avvenuto il 7 ottobre e alle sue conseguenze come a un elemento autonomo. Qualcuno dice che questo è soltanto un episodio della lunga lotta del popolo palestinese contro la pressione israeliana, per cui anche le uccisioni, gli stupri, l’assassinio dei bambini, la cattura degli ostaggi ne farebbero parte. Io rifiuto questo argomento. Il 7 ottobre è stata un’azione criminale da parte di un’organizzazione militare molto ben organizzata e l’esistenza di questa organizzazione è una minaccia che deve essere eliminata con la forza. Il problema ovviamente è che questa organizzazione opera in un contesto civile e si nasconde all’interno di esso.
Gli israeliani sapevano che un’azione militare contro Hamas avrebbe necessariamente provocato la morte di migliaia di civili. Si potrebbe argomentare che, visto che questo era evidente, Israele non aveva il diritto di reagire militarmente. Questo però avrebbe voluto dire che il dovere di Israele di proteggere i civili del paese nemico prevale sul dovere di proteggere la sua stessa popolazione.
Ghazi Hamad, uno dei membri del direttivo di Hamas, ha dichiarato che la brillante operazione militare compiuta il 7 ottobre sarebbe stata replicata due, tre, quattro volte fino all’annientamento di Israele, che è la fonte di ogni male. Quindi se non si distrugge Hamas, questi continuerà ad attaccare e a uccidere. La distruzione militare di Hamas è indispensabile perché la gente possa vivere di nuovo lungo le frontiere. Però, attenzione, se Israele riuscirà ad annientare Hamas militarmente, rimarrà da risolvere il problema che ha generato Hamas. Questo è tutto un altro argomento.
Voglio aggiungere soltanto due osservazioni. Sono tornato da Israele da poco e mi hanno impressionato due cose che da lontano non si percepiscono. Una è che non ci si può fidare di questo Stato che si è dimostrato criminalmente irresponsabile il 7 ottobre. Anche se condivido l’opinione dell’immensa maggioranza degli israeliani sulla necessità di continuare questa guerra fino alla vittoria, se ci fosse un altro governo, mi sentirei molto più sicuro. E tuttavia, se lo Stato ha fatto fiasco, la società civile invece ha funzionato a meraviglia. Una maggioranza di adulti israeliani è coinvolta in varie azioni di sostegno alle vittime della guerra. Ho incontrato in uno dei kibbutz oggetto dell’attacco di Hamas, una coppia di mezza età di Tel Aviv, lui architetto, lei stilista di moda, gente con una vita abbastanza agiata: da mesi si recano un giorno alla settimana nel kibbutz per fare pulizia nelle case. Non in quelle che sono state incendiate o bombardate, ma in quelle da cui la gente è scappata, lasciando una tazza di tè sul tavolo della cucina, le babbucce a terra... Anche se il governo garantisce la sicurezza più assoluta, rimane psicologicamente impensabile ritornare in quelle case.
Nei sondaggi, l’appoggio dell’opinione politica per i due partiti fascisti del governo Netanyahu non aumenta, cala. Di solito nelle guerre l’appoggio per i fascisti cresce. Non so come gli israeliani siano riusciti a resistere all’attrazione del fascismo in guerra, ma è un dato di fatto. Il Likud ha perso metà dei suoi sostenitori. I due partiti religiosi sanno che nessuno gli darà tanti soldi come questa coalizione. Quindi anche se questa coalizione non rappresenta più la maggioranza degli israeliani, nessuno vuole elezioni anticipate.
Voglio aggiungere che uno degli elementi cruciali di questa mobilizzazione impressionante è rappresentato dalla società civile araba. I cittadini arabi di Israele o palestinesi israeliani, come loro si definiscono, per la prima volta hanno appoggiato senza riserve il loro stato in un confronto contro il loro popolo etnico. In passato, all’indomani di qualche attentato, i palestinesi israeliani avevano commentato: “Beh, forse bisognava trattarci un po’ meglio...”. Non così questa volta. Non so se in Italia si sa che tra le vittime dell’aggressione c’erano arabi israeliani; anche tra gli ostaggi ci sono arabi israeliani e pure tra gli eroi che hanno salvato persone ci sono arabi israeliani. C’è gente che ha rischiato la propria vita. Lucy Aharish, una bravissima giornalista araba palestinese israeliana che ha sposato un israeliano (al loro matrimonio l’estrema destra ha organizzato una manifestazione di protesta) e che è una in gamba, non soggetta a compromessi, ha dichiarato in un’intervista: è indubbio che esistono grossi problemi con il governo di Israele e questi non si annullano per via della guerra, ma è ugualmente indubbio che noi proteggeremo il nostro paese contro i terroristi perché vogliamo vivere in una democrazia e non sotto una dittatura”.
Non sono parole facili: nessuno può proteggere Aharish ventiquattr’ore su ventiquattro e Hamas ha agenti anche in Israele.
Tanti arabi israeliani sono oggi coinvolti in varie azioni di solidarietà per i profughi e per l’esercito. Un ultimo sondaggio ha rilevato che dopo il 7 ottobre la fiducia tra gli arabi israeliani nell’esercito israeliano è aumentata dell’11%. La grande domanda è se la maggioranza ebrea israeliana sarà all’altezza, se saprà rispondere a questo.
Per il momento io non sono molto ottimista, tutti gli arabi che ho incontrato mi hanno detto di aver paura di parlare arabo per strada. Si moltiplicano gli episodi di violenza anti-araba, ci sono state più di centocinquanta indagini per hate speech contro gli arabi, nessuna contro gli ebrei, anche se l’hate speech antisemita si propaga in internet in modo assolutamente incontrollabile. In più c’è la situazione in Cisgiordania, dove -mentre tutti guardiamo a Gaza- i coloni compiono dei veri e propri pogrom contro i palestinesi. Qui l’esercito, che prima della guerra interveniva, anche se debolmente, ora non lo fa più, peggio: aiuta i coloni. Se lo dici ti rispondono che è una reazione. No, io credo che dire che questi crimini orribili giustificano i pogrom è come dire che l’occupazione giustifica il 7 ottobre. I crimini sono crimini e devono essere denunciati. Spero che quando la guerra sarà finita verranno fatti tutti i necessari processi contro questi criminali che sono una minaccia non solo per i palestinesi di Cisgiordania, ma anche per Israele.
Per concludere?
Potremmo parlare a lungo di quali sarebbero le possibilità di porre fine alla guerra tra israeliani e palestinesi. Quando in Polonia mi chiedono come vedo una possibile coesistenza tra israeliani e palestinesi rispondo così. Immaginiamoci la situazione seguente: siamo sulle rovine di Varsavia, nell’estate del ’45, e io incontro un gruppo di connazionali in fuga dai territori dell’est della Polonia dove gli ucraini hanno ucciso circa centomila civili polacchi e dico loro: “Ragazzi, sapete, tra settantacinque anni, una Germania democratica sarà il miglior alleato della Polonia in un’Europa di nuovo unita, e i polacchi apriranno le loro case per accettare due milioni di profughi ucraini”. Potete immaginare? Nessuno ci crederebbe!
Ecco, l’aiuto dei polacchi agli ucraini è una prova empirica che c’è speranza perché nessun odio è eterno.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)