Avevo tre anni quando è successo, ma solo più tardi ho saputo perché mio padre fosse stato assassinato. Lui stesso aveva scritto delle riflessioni sulla guerra d’Algeria, riflessioni molto personali, scritte su quaderni che noi abbiamo ritrovato e pubblicato più tardi. Questo mi ha permesso di sapere ciò che pensava ed è stato molto importante perché così un padre, ormai assente fisicamente, è tuttavia stato molto presente nella mia vita. Oggi, quando rileggo i suoi quaderni, mi accorgo che basta sostituire le parole "colonialismo" con "potere", il nome "Lacoste" con il nome "Ouyahia", per ritrovare le stesse riflessioni che faccio io oggi. Quando si rivolge al signor Lacoste dicendo: "Signor Lacoste se ne vada, non faccia ancora del male al mio paese e al suo", mi verrebbe da ripetere: "Signor Ouyahia se ne vada, non faccia ancora del male al mio paese e al suo". Scriveva di islam e democrazia già nel 1956, molto prima dell’indipendenza dell’Algeria.
Il fatto che lui in qualche modo abbia vissuto quanto sto vivendo io adesso e sia morto per questo, mi turba profondamente.
Mia madre è rimasta vedova a 40 anni, era analfabeta, non sapeva né leggere né scrivere e si è ritrovata con 6 figli di cui il maggiore aveva 15 anni e la più piccola pochi mesi. Mio fratello maggiore aveva quasi assistito all’assassinio di mio padre e ne era rimasto traumatizzato. Quando sentì gli spari, si mise a correre verso il centro socio-educativo, incrociò gli assassini che ripartivano, e arrivando al centro vide quella pozza di sangue, i corpi crivellati... C’è voluta molta intelligenza da parte di mia madre per allevarlo. Oggi è avvocato. Mia madre serbava di mio padre un messaggio: far studiare i ragazzi. Mio padre aveva aiutato molti giovani algerini privi di mezzi a proseguire gli studi. Per lui quella era la sola strada: imparare a capire, imparare a cavarsela, prendersi cura dell’Algeria. Mia madre ci ha trasmesso le sue idee, ma ha insistito soprattutto sugli studi: quella era la priorità. Lei non amava molto la politica, non voleva che facessimo politica, diceva sempre: "La politica uccide". Dal giorno in cui mio padre fu assassinato lei non è più esistita, non ha vissuto più, se non per i suoi figli. Si è accanita per questo... Soprattutto, voleva ad ogni costo che studiassero le sue figlie e ci è riuscita.
Mi commuove profondamente che sia morta proprio nel momento in cui cominciava a vedere i suoi figli andare all’università, e presto ne avrebbe visto alcuni laureati. Era il febbraio del 1981, io mi ero appena iscritta all’università. Questo mi ha spinto a non mollare gli studi. E’ vero che ho studiato per me stessa, e lei me lo diceva sempre: "Non è per me, è per te", ma il ricordo di mia madre mi ha sempre sorretto.
E’ morta quando avevo 22 anni, quando cominciavo a vederla come donna. Prima era mia madre, ma a vent’anni ho cominciato a capire che era una donna, a comprendere i suoi sacrifici. Avevo appena cominciato a parlarle quando è morta...
Alla fine sono riuscita a laurearmi. Dovevo fare in modo che lei potesse dire: "Ce l’ho fatta, ci sono riuscita, la mia lotta non è stata vana". Anche quei sacrifici di donna furono una lotta, che oggi è la nostra stessa lotta.
Ho deciso di restare per questo, per l’Algeria. Non si può partire così, senza fare niente. Io lavoro a Rouiba, a trenta chilometri da Algeri, prendo l’autobus del personale che passa alle sette sotto casa mia, ritorno con lo stesso mezzo alle cinque del pomeriggio. La sera sono quasi sempre a Rachda. Ci sono momenti in cui sono veramente stanca: l’Algeria è un paese faticoso, non è un paese che facilita la vita quando non si hanno grandi mezzi a disposizione. Per risolvere due problemi occorre un’intera giornata, questa è la quot ...[continua]
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