Massimo la Torre insegna Filosofia del Diritto all’Istituto Universitario Europeo a Firenze, collabora a varie riviste del settore e a Critica liberale. Recentemente ha pubblicato Disavventure del diritto soggettivo, edito da Giuffré.

Al centro delle tue ricerche nel campo della teoria politica c’è da sempre la figura e il pensiero di Francesco Saverio Merlino, un personaggio oggi scarsamente conosciuto e studiato. Come sei arrivato ad interessartene?
L’interesse per Merlino e per il suo pensiero è dovuto alla conoscenza che, grazie ad un amico comune, a vent’anni feci di Aldo Venturini, una persona deliziosa, morta tre anni fa.
Venturini, che di Merlino era stato amico e corrispondente, era una specie di "apostolo" merliniano -a lui, fra l’altro, si devono quasi tutte le edizioni di testi merliniani pubblicate nel dopoguerra- anche se proprio rispetto a Merlino visse forse il dramma più profondo della sua vita. Venturini era diventato amico di Merlino, che fin dalla fine dell’800 non apparteneva più a nessuna "scuola" del socialismo, nei primi anni Venti -cioè nello stesso periodo in cui era diventato il segretario di fatto, quello che teneva la commissione di corrispondenza, della neonata Uai, l’Unione Anarchica Italiana- e la loro amicizia si rivelò subito molto forte. Merlino considerava Venturini una sorta di discepolo e continuatore, anche se quest’ultimo faceva praticamente da segretario anche a Luigi Fabbri che era, insieme a Errico Malatesta, uno dei leader di maggior prestigio nell’anarchismo dell’epoca. Nel ’26, col rafforzarsi del fascismo e con le leggi eccezionali, il movimento anarchico fu messo fuorilegge e molti furono i militanti che dovettero scappare dall’Italia: Fabbri andò prima in Francia e poi in Uruguay, dove rimase fino alla morte, mentre Malatesta, già molto anziano, fu di fatto messo agli arresti domiciliari. La stessa cosa accadde a Merlino, che era già molto malato e si era ritrovato a dover ricorrere all’assistenza del figlio Libero che, dopo essere stato anarchico in gioventù, era diventato fascista. Anche Venturini avrebbe voluto andare in esilio, ma ad impedirglielo fu il fatto di essere l’unico sostegno della madre, anziana e malata. Dovendo rimanere in Italia Venturini decise di fare un concorso per maestro elementare, che vinse, e questo gli cambiò del tutto la vita. Decidere di fare il maestro, infatti, per Venturini significò dover sottostare a una serie infinita di controlli e questo, ovviamente, comportò il doversi allontanare completamente da quel che restava del movimento. Per Venturini furono, ovviamente, scelte non facili, che gli pesarono per tutta la vita, anche perché, conseguentemente, dovette troncare la corrispondenza e lo scambio ideale con Merlino -che nonostante l’età avanzata era ancora considerato un pericoloso sovversivo- così accrescendo l’isolamento che lo accompagnò fino alla morte, avvenuta nel 1930, quando aveva settantaquattro anni.
Ma, a parte la repressione fascista, all’isolamento di Merlino contribuì anche il suo essere critico delle correnti socialiste più diffuse?
Nonostante fosse polemico col socialismo riformista, col comunismo e con l’anarchismo, dal quale proveniva, Merlino fu per quasi tutta la vita un personaggio di primo piano della sinistra europea ed ebbe una vita eccezionale per intensità e pienezza, una vita per molti versi simile a quella di Errico Malatesta, col quale, anche quando furono divisi dalle polemiche teoriche, rimase sempre l’amicizia nata quando si incontrarono, giovanissimi, a Napoli. Erano entrambi di famiglia borghese -Malatesta era figlio di commercianti, Merlino era figlio di un magistrato-, ambedue frequentavano l’Università, dove studiavano rispettivamente medicina e diritto, ma mentre Malatesta abbandonò molto presto gli studi per dedicarsi all’attività rivoluzionaria, Merlino li terminò, laureandosi giovanissimo. La laurea giunse giusto in tempo per fargli assumere la difesa degli internazionalisti, fra i quali Malatesta, processati per il tentativo di insurrezione anarchica messo in atto nel Matese, vicino a Benevento. Fu durante quel processo che Merlino, già simpatizzante dell’Internazionale, si convertì decisamente alle idee socialiste, rivoluzionarie, libertarie e fu quello il processo che segnò anche l’inizio della sua eccezionale vicenda umana e politica. Rapidamente, infatti, divenne uno dei personaggi più importanti del movimento anarchico italiano anche se, all’inizio degli anni ’80, dovette affrontare un esilio, durato più di dieci anni, che lo vide a Parigi, Londra e gli Stati Uniti, dove continuò sempre l’attività militante -in Francia fu addirittura arrestato per attività antimilitarista- e la ricerca teorica.

Fra l’altro, oltre che un intellettuale di grande levatura, Merlino era anche un uomo di fegato. Al di là delle questioni più legate all’attività militante, anche come avvocato Merlino non temeva di prendere le difese di personaggi come Gaetano Bresci o come gli attentatori del Diana, che pure condannava decisamente e rispetto ai quali lo divideva anche il suo distacco dall’anarchismo più radicale, avvenuto negli anni attorno alla fine dell’800. Il caso della difesa di Bresci è particolarmente significativo, perché Bresci, dopo aver ucciso Umberto I°, non aveva chiesto di essere difeso da Merlino, ma da Turati, il quale, però, rifiutò. Il regicidio era un crimine considerato infamante, era sentito come la rottura di una sacralità, e il clima che si era creato era tesissimo, da caccia alle streghe, per cui assumere la difesa di Bresci voleva dire affrontare sia dei rischi di carattere penale (bastava un nulla per poter essere inquisito), sia di carattere personale perché c’erano rischi di linciaggio, di aggressione popolare. Merlino comunque non esitò. Il processo, come prevedibile, dato il clima, fu pieno di grandi irregolarità, quasi un processo sommario, ciononostante Merlino fece un’arringa in cui in qualche modo giustificava l’atto di Bresci. Ovviamente non fece l’apologia del regicidio, ma lo spiegò: ricordò che l’attentato di Bresci si inseriva nella situazione di eccezionale irrigidimento autoritario, voluta dallo stesso Umberto I° e culminata, nel 1898, col cannoneggiamento della folla e la proclamazione dello stato di assedio a Milano ed in seguito col confino dei maggiori leaders anarchici, socialisti e repubblicani.
Merlino fu contemporaneamente un leader politico, un avvocato impegnato, un agitatore e un propagandista rivoluzionario, ma tutto questo, come dicevo, non comportò mai l’abbandono dell’approfondimento e della ricerca teorica a tutto campo, che anzi furono sempre il centro dei suoi interessi. Una delle maggiori differenze che intercorrono fra Malatesta e Merlino, infatti, è che mentre Malatesta, che pure è un pensatore notevole nonostante l’apparente semplicità, scriveva soprattutto per ragioni propagandistiche o di dibattito interno al movimento anarchico, Merlino si dedicò principalmente a saggi e interventi marcati da una certa distanza rispetto alle necessità prettamente militanti. E’ per questo che fra gli scritti di Merlino si trovano moltissimi saggi, di ampio respiro teorico, di diritto penale, di storia sociale, di teoria politica.
Questa esigenza di fare teoria in senso ampio aveva un preciso ascendente culturale?
Una delle influenze culturali che certamente contribuirono alla sua formazione e al suo bisogno di continuamente approfondire fu quella che proveniva dagli ambienti dell’illuminismo napoletano, una delle culle tanto del liberalismo che del socialismo italiani. Non a caso, per dare un’idea dell’importanza di tale circolo intellettuale, fu frequentandolo, tramite un gruppo di seguaci di Pisacane, che Bakunin, giunto a Napoli su posizioni panslaviste e democratico-radicali, divenne anarchico.
Questo circolo napoletano affondava le sue radici nella rivoluzione liberale napoletana del 1799, una rivoluzione che durò pochissimo, sei mesi, dopo i quali venne schiacciata dalla reazione. Negli anni che seguirono, fra i sopravvissuti e i nuovi membri di tale circolo ovviamente si svilupparono molti dibattiti e riflessioni, la più importante delle quali fu quella di Vincenzo Cuoco, che si era rifugiato a Milano per sfuggire alla repressione. Cuoco, nel libro Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, indicò nella mancata comprensione dell’elemento storico-sociale da parte dei rivoluzionari il punto debole del loro tentativo, quello che aveva impedito che le masse a loro volta potessero comprendere, e quindi appoggiare, il governo rivoluzionario, del quale, fra l’altro, Cuoco metteva in luce il centralismo, attribuendo anche ad esso il mancato rapporto con la popolazione. Cuoco sosteneva che la rivoluzione liberale doveva riguardare l’intera società, non solo lo stato, e perciò sottolineava la necessità che una rivoluzione coerentemente liberale valorizzasse le tradizioni comunali perdurate nel tempo e le comunità contadine, le quali avrebbero dovuto rappresentare la base di una democratizzazione dal basso, d’impronta federalista e più attenta al contesto sociale.
Nell’ambiente napoletano le riflessioni di Cuoco furono ampiamente accettate, ma vennero viste in due modi molto diversi. Da una parte, infatti, quel che Cuoco sosteneva venne interpretato come invito a correggere il formalismo liberale -cioè l’accento posto sul momento legislativo-istituzionale- attraverso la problematica sociale; mentre dall’altra venne inteso come una correzione in senso storicista del normativismo liberale (la concezione per cui certi principi e meccanismi debbano essere applicati sempre e comunque), che dette vita alla convinzione che certe libertà fossero applicabili solo in particolari condizioni di sviluppo storico. Queste due diverse letture furono importanti per la storia intellettuale italiana perché dettero vita a due diverse tradizioni di pensiero. Una è quella storicista, che ebbe fra i suoi elementi di spicco Spaventa, Croce, Labriola, attraverso il quale si allacciò al marxismo, mentre l’altra è la lettura democratico-radicale, socialisteggiante se non socialista, che trovò la sua maggiore espressione in Pisacane.
L’idea centrale che Pisacane riprende da Cuoco è che una società non può essere liberata solo a livello di governo: è essenziale che il processo di liberazione coinvolga la società intera. Per Pisacane, che in questo si avvicina molto a Proudhon, il problema della libertà non riguarda solo l’aspetto politico, cioè le istituzioni centrali, si tratta soprattutto di una questione di periferia e quindi si deve partire dalla riorganizzazione e dalla autonomizzazione dei comuni e da una profonda riforma sociale.
Questo era il clima intellettuale in cui si formò il giovane Merlino e non a caso i suoi primi scritti di un certo rilievo furono due opuscoli, rispettivamente dedicati a Mario Pagano e a Vincenzo Russo, nei quali questi due giuristi, che furono fra gli estensori della Costituzione della repubblica napoletana del ’99, vengono presentati come precursori del socialismo bakuninista.
Il suo approccio al socialismo, quindi, si basava più sulla concreta situazione sociale, e sulle sue radici storiche, che sulle grandi teorie filosofiche...
Merlino, a differenza di molti dei grandi pensatori socialisti dell’Ottocento, che provenivano da studi di tipo filosofico, era soprattutto un giurista e un economista e il programma intellettuale che perseguì sempre con grande lucidità partiva dalla considerazione che la questione sociale e quella istituzionale sono fra loro intimamente e strettamente collegate. Tenendo sempre questo legame come punto cardinale della riflessione, si dedicò tanto all’analisi della realtà sociale e delle istituzioni viste nelle loro concrete determinazioni, quanto alla costruzione di una teoria economica che fosse compatibile con i principi della libertà e fosse immediatamente applicabile. Questo lo portò, del tutto conseguentemente, ad una continua riflessione attorno alla questione della politica, anch’essa sempre trattata senza perdere di vista gli aspetti concreti.
Riguardo allo specifico aspetto sociale e istituzionale dell’epoca, Merlino scrisse uno dei suoi libri più belli, L’Italia qual è, che ancora oggi gli storici che si occupano dell’Italia liberale citano perché acutissimo e documentatissimo (non a caso la sua ricchissima biblioteca servì anche a studiosi come Michels, il famoso sociologo, che in un libro lo ringrazia esplicitamente per avergliela messa a disposizione). Nel campo della teoria economica, invece, il suo tentativo fu di cercare di delineare una teoria alternativa a quella marxista allora accettata da tutti i socialisti e anche da quasi tutti gli anarchici, basti pensare che la divulgazione del Capitale era stata fatta da Cafiero. Fu un tentativo che gli attirò contro le polemiche furibonde di tutte le tendenze del marxismo italiano, da Labriola (che giunse anche alla calunnia pur di screditarlo, senza riuscirvi) a Turati, ma che non riuscirono né a demolire i suoi argomenti, né a dimostrare che la sua teoria non si accordava con la sua intenzione dichiarata, che era quella di vincolare l’economia a dei principi normativi, pur riconoscendole, e salvaguardandone, l’autonomia di funzionamento.
La teoria che delineò, e che trovò la sua prima formulazione completa nella prima parte del libro Pro e contro il socialismo, scritto nel 1897, mentre era in carcere, partiva analizzando l’economia nel suo funzionamento concreto -un suo studio famoso riguardava, ad esempio, la rendita agricola- da cui emergeva come nell’ambito economico le diseguaglianze siano ineliminabili: anche a parità di lavoro, un terreno, a causa della situazione naturale più vantaggiosa, rende più di uno maggiormente svantaggiato, un lavoro può essere più produttivo di un altro al di là della fatica necessaria a compierlo e così via. Conseguentemente, non solo non è possibile determinare il valore di un bene esclusivamente attraverso il valore-lavoro, come invece fa il marxismo, ma occorre riconoscere che il valore è qualcosa di composito, dovuto a una molteplicità di elementi, non ultimi la domanda e l’offerta.
Da queste considerazioni Merlino deduce che l’economico è una sfera della realtà con delle leggi e degli ambiti precisi e conseguentemente non è possibile, se non snaturandolo, che esso possa fondersi col politico, come invece sostiene il marxismo. Inoltre, siccome sulla base del funzionamento dell’economico una situazione di uguaglianza fra i produttori non è mai presumibile, anche il comunismo, la "presa dal mucchio" che sull’astratta uguaglianza dei produttori si fonda, non è possibile o augurabile. Per tutto questo Merlino rivaluta il meccanismo del mercato, che vede intrinseco a un’economia sviluppata, la quale, però, non necessariamente deve continuare ad essere un’economia basata sullo sfruttamento.

Per Merlino lo sfruttamento su cui si basa il capitalismo entra in gioco nel momento distributivo delle risorse e dei profitti -rispetto al quale si può intervenire con meccanismi redistributivi, ad esempio di tipo fiscale- e nel funzionamento dello scambio, cioè nel funzionamento del mercato che, quindi, non solo non va distrutto, ma va costantemente salvaguardato da quelle storture, come le concentrazioni monopolistiche, che mettono in crisi il meccanismo della domanda e dell’offerta su cui il mercato è basato.
L’altro luogo in cui, per Merlino, vi è uno sfruttamento che non ha nulla a che fare col buon funzionamento dell’economia è quello dell’organizzazione della fabbrica. Se da un lato è certo necessaria un’organizzazione della produzione, non sta scritto da nessuna parte né che tale organizzazione debba essere strettamente gerarchica, né che le fabbriche e le imprese debbano essere di proprietà di singoli e società capitalistiche, mentre potrebbero essere detenute da cooperative o dalla collettività di coloro che in esse lavorano.
Fu questa accettazione del mercato a metterlo in polemica con gli anarchici?
A suscitare la polemica fra Merlino e l’anarchismo, ai cui principi ispiratori non rinunciò mai, fu la questione della politica e della democrazia, affrontate nella seconda parte di Pro e contro il socialismo , che fra l’altro è un libro rarissimo perché da allora non è più stato ristampato. E’ qui che Merlino, rompendo col tradizionale amorfismo politico degli anarchici, pone la questione dell’intervento dei movimenti operai e socialisti nelle istituzioni. Un intervento che, nella sua visione, poteva essere attuato in una prospettiva libertaria anche senza dover aspettare la rivoluzione, così favorendo immediatamente le esigenze di autogoverno e di autoamministrazione sostenute dall’anarchismo.
Fu l’insieme delle posizioni che Merlino sosteneva in questo libro che lo definirono immediatamente come un eretico, un eterodosso, rispetto alle due grandi tendenze del socialismo. Dall’anarchismo lo divideva la convinzione che fossero comunque necessarie delle istituzioni e dei meccanismi rappresentativi, senza i quali non considerava possibile alcuna gestione di una società moderna, mentre rispetto ai socialisti, a cui pure si avvicinò per un breve periodo, lo dividevano il suo libertarismo di fondo e una sorta di "malessere" verso la struttura statale in quanto tale, che i socialisti invece accettavano.
Come già detto, le polemiche che seguirono la pubblicazione di questo libro furono moltissime, ma quella che più impegnò Merlino sentimentalmente e teoricamente fu quella che lo contrappose agli anarchici, in particolare a Malatesta, e che riguardava soprattutto la questione della democrazia e delle istituzioni.
Va notato, anche per capire l’originalità del pensiero merliniano, che la difesa che Merlino fa della democrazia non parte dai principi liberal-democratici, ma da quelli socialisti e anarchici. Merlino, per esempio, certo difende la delega e il principio di maggioranza, che considera imprescindibili per gestire democraticamente una società complessa, ma la delega che difende non è il mandato in bianco che anche oggi gli eletti ricevono dai loro elettori, bensì una delega-mandato, con limiti ben precisi, anche se con margini di discrezionalità. A Merlino preme molto salvaguardare la distinzione fra l’ambito politico e quello sociale, perché ritiene che anche in questa differenza stia una delle condizioni perché la democrazia sia vivente e continuamente "aperta". Ed è a partire da questo che cerca di dimostrare come uno sviluppo su questa base del sistema democratico non sia in contraddizione con lo spirito dell’anarchismo. La polemica con Malatesta, che ovviamente non accettava la democrazia e il principio di maggioranza in alcuna forma, fu molto corretta nei modi (i due erano pur sempre amici), ma radicale nei contenuti, anche se quasi tutta avvenne, come era nell’abito concettuale di Merlino, a partire dalle questioni pratiche. La discussione sul principio di maggioranza, per esempio, si svolse a partire dalla semplice domanda di come fare per costruire una linea ferroviaria. Anche nella decisione su tale questione Malatesta non accetta il principio di maggioranza per cui, di fronte all’eventuale disaccordo sul tracciato della linea, finisce per proporre che se ne facciano due, ma non riesce a rispondere alla contro-obiezione di Merlino, che pone il problema di come fare se di linea è possibile farne solo una. Malatesta non lo dice apertamente, ma la logica conclusione della sue tesi, come Merlino sottolinea, è che, praticamente, per risolvere le contese col metodo di Malatesta si finisce per fare la guerra civile: una soluzione molto meno anarchica del votare col principio di maggioranza.
L’altro grosso tema del dibattito riguardò la questione criminale e anche su questo terreno Malatesta di fatto mostrò la corda. Di fronte a Merlino, che sosteneva che comunque, anche in una società libertaria, delle sanzioni nei confronti dei rei sono necessarie, ad esempio è necessario contenere il pazzo omicida, Malatesta concorda, "Ma come si fa a contenerlo? Per farlo ci vorranno pure delle forme, delle istituzioni?" insiste Merlino, al che Malatesta non trova di meglio che rispondere che non sono necessarie istituzioni perché "Sarà il popolo a decidere sul da farsi", così finendo per affidarsi, romanticamente, a un ente quasi metafisico, "il popolo", che dovrebbe controllarsi e gestirsi senza particolari forme politiche e giuridiche.
Bisogna aggiungere che in seguito, attorno agli anni ’20, il dibattito si riaprì. Durante la prima guerra mondiale Merlino, decisamente pacifista e antimilitarista, fu disgustato dall’ambiguo "né aderire, né sabotare" adottato dai socialisti e già questo lo riavvicinò agli anarchici, ma ad avvicinarlo ulteriormente, nell’immediato dopoguerra, fu la sua convinzione che si stesse avvicinando la possibilità di una rivoluzione, che non ci fu anche se ci furono molti moti sociali e l’occupazione delle fabbriche. Per tutto ciò, attorno agli anni ’20, ricominciò a pubblicare su Umanità nova, che Malatesta dirigeva, degli interventi su alcuni problemi concreti che fecero riaprire il dibattito pubblico fra i due. Ma in questa seconda fase, che finì anche perché il giornale fu chiuso dal fascismo, Malatesta, pur senza mai concordare con Merlino, fu molto meno intransigente, molto più sfumato e concesse molto di più alle tesi merliniane.
In sostanza, perciò, quel che sta alla base della ricerca di Merlino è il tentativo di coniugare i principi socialisti e libertari con la democrazia e di renderli operanti nelle società moderne...
Sì, anche se occorre stare attenti a non fare di Merlino un liberal-socialista alla Rosselli, o, per citare un contemporaneo, alla Bobbio. Merlino rimase sempre molto più sovversivo del liberal-socialismo perché, come Malatesta gli riconobbe nel commovente necrologio che scrisse su un giornale straniero, rimase sempre animato da una sensibilità libertaria e si trovò sempre "dal buon lato della barricata".
In fondo, il nocciolo del suo pensiero, quel che cercò sempre di far capire, è che lo sviluppo della democrazia porta all’anarchia, e che, quindi, la democrazia non è diversa dall’anarchia, perlomeno dall’anarchia possibile. Per Merlino, quindi, l’anarchia non è altro che la radicalizzazione della democrazia e questa è l’unico modo in cui l’anarchismo può diventare pratica politica, mentre rifiutandola, come l’anarchismo ha storicamente fatto mantenendo un atteggiamento "prepolitico", non si esce da un atteggiamento di pura testimonianza, che da solo non regge.
E’ chiaro che questa concezione significa tagliare le ali a un certo utopismo, ma questo non vuol dire che Merlino si fosse appiattito sull’esistente, anzi. L’utopismo che Merlino respinge è quello che, stabilito un massimo cui vuole giungere, non è in grado o non vuole indicare stadi intermedi tra questo massimo e il presente.
Dicevo prima delle polemiche che, nonostante si fosse avvicinato al Partito Socialista (addirittura si presentò candidato a delle elezioni senza essere eletto), ebbe con Bissolati e Turati, ed anche in esse si vede come per Merlino la democrazia e la pratica democratica non coincidano mai con la pratica parlamentarista fatta dai socialisti (piena di accordi sottobanco, di giochetti elettorali, di compromissioni), una pratica che per lui era troppo appiattita sulle istituzioni vigenti. L’attenzione di Merlino per le istituzioni era soprattutto il riconoscimento di principio della necessità dell’ambito istituzionale e non significò mai l’accettazione tout-court delle istituzioni democratico-borghesi. Una delle critiche che Merlino faceva al liberalismo storico, ad esempio, riguardava il fatto che certi principi liberali di fatto non riguardavano, e tuttora non riguardano, la struttura burocratica dello stato che, al di là dei principi istituzionali, rimane del tutto impenetrabile da principi e prassi di carattere liberale e continua a funzionare secondo il principio gerarchico e criteri di segretezza e di pura obbedienza.
Merlino, invece, sosteneva la necessità di una democratizzazione della burocrazia perché riteneva necessario estendere continuamente il campo di applicazione dei principi democratici, facendoli fuoriuscire dall’ambito puramente formale o circoscritto all’elemento legislativo centrale. Questa per lui era la pratica dell’ "anarchia possibile", una pratica cui non rinunciò mai.
Ma quali furono i rapporti fra Merlino e le revisioni del marxismo che, alla fine dell’800, videro all’opera pensatori come Eduard Bernstein in Germania o Georges Sorel in Francia?
I rapporti furono molti e vari, Merlino fu certamente il protagonista italiano della stagione revisionistica, che per molti versi anticipò, anche se il suo percorso è molto diverso da quello di Bernstein o di Sorel.
Va tenuto presente che i vari tentativi di revisione del marxismo che si diffusero in Europa alla fine dell’800 avevano origini distinte. Nei paesi di lingua tedesca la revisione fu tentata soprattutto mettendo a confronto il marxismo col neoempirismo e le teorie economiche "marginaliste" che cercavano di applicare all’economia il metodo sperimentale delle scienze fisiche, originate dagli studi di von Wieser, o con varie forme di neokantismo (che mettevano in discussione la teorizzazione marxista del socialismo come necessario prodotto dello sviluppo storico, e invece ponevano il socialismo come compito etico), come appunto fu nel caso di Bernstein.
Un altro tentativo di revisione del marxismo, più specificamente italiano, muoveva invece da posizioni idealistiche e coinvolse pensatori come Benedetto Croce e soprattutto Antonio Labriola, il quale criticava soprattutto l’aspetto evoluzionistico presente nel tardo Marx.

Ci fu poi una terza posizione revisionistica, quella di Lenin, che alla fine risultò vincente non perché proponesse una teoria più valida delle altre -in fondo altro non era che la reinterpretazione in chiave ultravolontaristica del marxismo, un’interpretazione in cui l’elemento idealistico, il comunismo, veniva visto quasi come mito-, ma perché opponeva alle teorie elaboratissime, a volte un po’ intellettualistiche, degli altri revisionismi la forza dei fatti, cioè la rivoluzione russa, che immediatamente affascinò tantissimi intellettuali di sinistra.
In questo clima intellettuale uscì la Rivista critica del socialismo, che Merlino, fondò nel 1899 e diresse per l’unico anno in cui, purtroppo, questa rivista durò.
Si trattava di una rivista bellissima, conosciuta e letta in tutta Europa, che pubblicava testi degli eretici delle varie tendenze del socialismo. Oltre a questa, un’altra rivista importantissima per l’emergere della critica del marxismo fatta da sinistra, anche se non da posizioni anarchiche, fu La Société Nouvelle, pubblicata in Belgio, dove Merlino, a partire dagli anni ’80, pubblicò molti dei suoi saggi più importanti, così come ne pubblicò su riviste di studi giuridici ed economici pubblicate in Francia e in Germania.
In quei saggi sono anticipate quasi tutte le critiche alle concezioni economiche e politiche marxiste che poi vennero fatte da Bernstein in Germania e da Sorel in Francia.
Quasi sicuramente Bernstein lo lesse, ed in ogni caso è innegabile che, anche se non mi risulta lo abbia mai citato esplicitamente, molto di quanto sostenne richiamasse fortemente quel che Merlino aveva già detto. Bernstein era comunque molto meno radicale di Merlino, cercava di salvare molti aspetti del pensiero di Marx, che invece Merlino rifiutava, ma soprattutto era meno radicale proprio sulla democrazia, perché non faceva altro che cercare di adattare lo stato democratico alla visione socialista. Merlino, invece, come dicevo prima, coniugò i principi democratici e il socialismo in una visione per cui i principi democratici subivano una sorta di "accelerazione" che, nella sua concezione, doveva portare ad una profonda modificazione in senso socialista e libertario delle liberal-democrazie stesse.
Con Sorel, invece, il rapporto fu sempre più diretto perché Sorel e Merlino erano amici fin da quando Merlino dovette fuggire in Francia. Nel 1898, Merlino aveva pubblicato un libro, Forme et essence du socialisme, mai tradotto in italiano, che conteneva una rielaborazione e un approfondimento di alcune parti di Pro e contro il socialismo e alcune parti di un’altro suo libro, L’utopia collettivistica, la cui introduzione era di Sorel, che in essa riconosce a Merlino il merito di averlo spinto sulla strada della revisione del marxismo.
Con Sorel, inoltre, Merlino intrattenne una fitta corrispondenza, durata circa un ventennio, nella quale il dibattito teorico era ricchissimo e spesso verteva attorno alle evoluzioni teoriche di Sorel, che si era dapprima avvicinato all’empirismo, per poi abbandonarlo e giungere a posizioni mitico-volontaristiche vicine a quelle di Lenin, come testimonia il celebre Considerazioni sulla violenza.
Rispetto a tutti questi cambiamenti Merlino rimase sempre piuttosto freddo; alle simpatie soreliane per Lenin ribatteva che "Lenin è Nietzsche più il socialismo" e quindi non diceva nulla di nuovo, ma quello che considerò intollerabile furono le tarde simpatie che Sorel, che morì nel 1922, manifestò per il primo Mussolini.
Quando Merlino, uomo di saldissimi principii, lesse alcuni degli articoli in cui Sorel parlava di Mussolini in termini elogiativi, andò su tutte le furie e, dopo aver scritto, pare, una lettera di fuoco a Sorel, prese tutte le lettere di quest’ultimo, che erano degli interi pacchi, e le bruciò. Dell’epistolario fra Sorel e Merlino, quindi, in Italia non resta più nulla. Resta solo la memoria di quello che Merlino disse a Venturini.