Nell’intervista apparsa sul n. 68 del nostro giornale, lei preannunciava un possibile genocidio in Kosovo a danno della popolazione albanese...
Chi studia da vicino i crimini contro l’umanità e i genocidi dispone di elementi di comparazione che gli permettono di segnalare all’attenzione degli uomini politici quando una minaccia di genocidio è reale. E’ questo il caso degli eventi che si sono susseguiti nell’ex-Jugoslavia dal 1989 fino ad oggi, a partire dai famosi raduni di massa organizzati da Milosevic in Kosovo in difesa dei serbi. Almeno dal 1994-95, quando la situazione in Bosnia si andava normalizzando, era più che evidente che il Kosovo sarebbe stato il prossimo terreno di scontro fra i serbi e le altre minoranze etniche della Federazione Jugoslava. Più il territorio della Jugoslavia si restringeva, più la determinazione dei serbi si rafforzava. Il fatto che i kosovari albanesi fossero il 90% della popolazione rendeva a priori impossibile la loro espulsione o soppressione in massa. Occorrevano circostanze straordinarie perché la Serbia potesse intraprendere un’azione tecnicamente impossibile, ossia l’eliminazione, da parte del 10% della popolazione, del restante 90%. Dal 1997-98 era più che evidente che i serbi stavano puntando a una soluzione del genere; che stavano dando inizio alla politica di pulizia etnica, già attuata in altre zone dell’ex-Jugoslavia, modificando la distribuzione della popolazione all’interno del Kosovo; che cercavano di fare della parte storicamente serba del Kosovo -quella dei monasteri ortodossi che si trovano nella parte nord-occidentale della regione, nei pressi della città di Pec- il centro simbolico del radicalismo grande-serbo; che stavano progettando la riconquista progressiva dell’intera regione mediante l’espulsione dei suoi abitanti non serbi.
Di fronte a questa politica di lenta espulsione della popolazione, segnata da angherie e massacri -di proporzioni minime, certo, ma che innegabilmente esprimono una politica- la politica di resistenza passiva adottata da Rugova apparve in tutta la sua insufficienza. Tutto ciò condusse a una politica di resistenza attiva con la formazione di un esercito di liberazione popolare grazie al sostegno dell’Albania. Ma l’apparizione sulla scena dell’Uck ha reso più facile il compito ai serbi, perché ha finito per giustificare una politica di repressione ancora più dura. Molti adesso sostengono che l’intervento militare della Nato abbia accelerato il processo di epurazione etnica in Kosovo, spingendo i serbi ad accentuare la repressione con una politica di deportazioni e massacri. Questo ragionamento non mi sembra molto fondato, perché da tempo era evidente che i serbi si stessero preparando, in un futuro non troppo lontano, a cacciare gli albanesi dal Kosovo. L’avrebbero fatto in ogni caso, con o senza l’intervento della Nato. I kosovari non avrebbero avuto alcuna possibilità di vivere in pace con i serbi, anche se la Nato non fosse intervenuta.
In quello che i serbi stanno facendo alla popolazione kosovara albanese si scorgono pratiche e metodi genocidari?
In quanto storico, posso ragionare solo sulla base di documenti. Noi attualmente sappiamo due cose. In primo luogo, la totalità della popolazione albanese del Kosovo rischia di essere cacciata dalle proprie case nelle prossime settimane. E questa è una certezza perché ormai sarebbero già 900 mila gli albanesi deportati. In secondo luogo, abbiamo i racconti dei testimoni. E’ vero che si tratta di racconti raccolti nell’emergenza della deportazione, e che non sono suffragati da alcuna prova. Ma concordano fra loro. Perciò mi sembra sufficientemente provato che ci sono stati dei massacri; che ci sono state esecuzioni sommarie, in particolare di giovani uomini, sospettati di essere stati arruolati dall’Uck. Sicuramente, quando le truppe della Nato entreranno nel Kosovo, scopriranno carnai e fosse comuni. Però, in mancanza di prove certe di esecuzioni sommarie, dobbiamo chiamare le cose con il loro nome.
Quella che vediamo avvenire in questi giorni è una politica di deportazione della totalità della popolazione, condotta senza precauzioni di sorta, ossia senza che le persone possano portare con sé il benché minimo bagaglio, ...[continua]
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