Il progetto Cartesio, di raccolta della carta porta a porta, è oggi un’esperienza all’avanguardia anche a livello europeo. Voi però siete partiti con una cooperativa che sperimentava un nuovo approccio al problema della tossicodipendenza. Puoi parlarcene?
Giancarlo Palazzo. In effetti si può dire che tutto sia cominciato nel 1992, quando si è costituito uno degli elementi caratterizzanti del consorzio-network attuale, che è la cooperativa sociale Arcobaleno. Questa è nata con un forte legame col gruppo Abele, in particolare prendendo a modello una loro esperienza di struttura terapeutica semiresidenziale un po’ rivoluzionaria in quegli anni.
Fino allora infatti si era sempre sentito parlare delle comunità terapeutiche, come quelle dove ti prendevano, ti rinchiudevano dentro per due o tre anni, poi forse uscivi, forse rimanevi direttamente a lavorarci dentro, come le grosse strutture di cui tutti abbiamo sentito parlare. Lì invece ci andavi al mattino alle 9 e uscivi al pomeriggio alle 5, e in quelle ore lavoravi molto in gruppo sulle relazioni.
Ecco, questo inedito approccio alla tossicodipendenza ci ha presto portato a fare delle osservazioni interessanti sui percorsi d’uscita di queste persone, nel senso che chi ce la faceva aveva poi una grande ricchezza di esperienze, di rapporti umani che era giocabile. Da qui l’idea di non perdere questo patrimonio umano che si era individuato, bensì di raccordarlo a un altro problema che esisteva. Cioè, parecchie di queste persone che uscivano da situazioni radicali di disagio avevano anche i ponti tagliati verso il mercato del lavoro. Perché hai la fedina penale sporca, perché la tua salute non sempre è ottima e perché comunque sei stato un tossico e questo magari si vede o si viene a sapere. Quindi abbiamo voluto provare ad auto-organizzarci delle forme di lavoro, con questa logica di sperimentazione, ossia approcciando il lavoro con delle logiche un po’ diverse da quelle normalmente proposte, lavorando molto sulla relazione interna al gruppo di lavoro, sulle motivazioni, sulla partecipazione, sul senso del lavoro. E anche sulla gestione economica: molto trasparente, il più possibile partecipata, tesa comunque alla creazione di altri posti di lavoro e non alla creazione di utili.
Noi abbiamo sempre lavorato in un campo un po’ più ampio di quello del disagio, del soggetto svantaggiato definito dalla legge 381, ossia quello che arriva dal percorso di tossicodipendenza, alcool dipendenza, regimi alternativi al carcere, handicap fisico-psichico, includendo anche tutta una serie di altri personaggi che sono ai margini del mercato del lavoro per storie personali, ma anche solo banalmente per età. La nostra tensione è sempre stata quella di tenere aperta la porta anche a questi soggetti. Una scommessa che direi ha funzionato, nel senso che moltissime di queste persone, davanti a un’occasione chiara, limpida, pattuita in maniera cristallina, definito il rapporto di lavoro e che cosa ti si chiede, hanno rimesso in gioco tutta una quantità di risorse che magari loro stessi pensavano di non poter più utilizzare, dando dei grossi apporti.
Un’altra sfida è stata quella di rifiutare una gestione assistenziale anche dal punto di vista economico...
Esatto. Allora, siamo un’impresa cooperativa? Bene, campiamo del lavoro che riusciamo a realizzare.
Noi siamo partiti proprio con questa logica: quello che fatturiamo, tolte le spese, è quello che ci possiamo pagare come stipendi. Sembra banale, poi in realtà lo è un po’ meno.
E quindi ci siamo immediatamente dati un’organizzazione del lavoro interna secondo certi standard, ma anche con un’attenzione a quello che era il risultato economico, il livello di produzione che si poteva raggiungere. Tentando continuamente di coniugarlo con l’altra anima, che è quella dell’inserimento lavorativo.
E questa resta una scommessa da rinnovare ogni giorno, perché le esigenze economiche sono concrete: non possiamo arrivare a fine mese senza stipendio perché capottiamo tutti quanti; dall’altra parte, le persone che arrivano da difficoltà possono avere nuovamente delle difficoltà, e queste vanno o gestite o abbandonate. Noi abbiamo scelto di provare a gestirle.
L’immagine che facciamo sempre è quella dell’equilibrista: tu sei su un filo e continuamente ti sbilanci e correggi; non esiste una posizione statica, stabile, è un meccani ...[continua]
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