Mi hanno preso il 15 febbraio del ’95. Dove abitavo prima, nella via Kalinin, avevo dei vicini spaventosi, una famiglia di due donne, madre e figlia, e il convivente di quest’ultima, un osseto che quando sono arrivate le truppe russe è andato a lavorare nella komandatura russa (comando militare. N.d.r.). Le due donne erano tanto nazionaliste che persino i russi non le potevano vedere. Allora, quel giorno fatalità volle che dopo essermi fermato nella fabbrica dove lavorano le verdure e aver caricato dei sacchi di piselli, passai per il mio vecchio quartiere e mi fermai per le case a distribuire alla gente che conoscevo, gratuitamente, questi sacchi di piselli. La gente era contenta. Ma loro, queste donne, le ho saltate, a loro non potevo darne. Ma loro mi avevano visto e sono andate alla komandatura a dire che io avevo rubato, che avevo armi, che facevo mercato nero, che avevo dei depositi, addirittura hanno detto che avevo occupato con la forza la casa dove vivevo, che invece avevo comprato. Era di una vecchia che era morta e i suoi eredi me l’avevano venduta, a quel tempo, per 17.000 rubli, me lo ricordo ancora.
E così, il giorno dopo, quando stavo partendo col camion per andare negli Urali e con me c’erano anche due operai, due russi, i soldati russi mi hanno fermato. Hanno circondato l’auto in tanti, armati, erano sempre tanti, mai meno di una quindicina di persone perché avevano paura, anche se il territorio era occupato da loro. Mi hanno preso i documenti, guardato il cognome e cominciato subito a picchiarmi. E mi hanno picchiato forte, mi hanno messo le manette, i due russi che erano con me li hanno presi e li hanno messi vicino ad uno steccato, poi mi hanno buttato per terra, nel fango. Mi puntavano i mitra addosso e dicevano: “Ringrazia quei due russi che stanno con te se non ti uccidiamo subito”. Uno dei soldati, un ufficiale, ha poi fatto perquisire la macchina: “Vai a vedere cos’ha nella macchina”. Questo va, guarda e dice: “Ha delle granate, dei proiettili”. In realtà non c’era niente, nessuna granata. Ma allora, se ti trovavano, non dico armi o proiettili, ma semplice ghisa oppure un coltello, ti prendevano e ti fucilavano lì dove ti trovavi e poi scomparivi.
Poi mi hanno tirato su, buttato sul loro blindato e portato alla komandatura. Mi hanno trascinato dentro e hanno cominciato ad interrogarmi. Mi hanno messo contro un muro e hanno ricominciato a picchiarmi, a lungo, calci e pugni. Poi mi hanno presentato un documento, da firmare, dove c’era scritto che io riconoscevo le armi come mie e mi hanno detto: “Firma!”, ma io avevo le mani bloccate dietro dalle manette, delle manette nuove che penetravano nei polsi in modo terribile. Dopo, ho avuto i solchi ai polsi ancora per tre mesi. Comunque, le mani non me le sentivo più. Questo mi ha dato una penna e me l’ha messa in mano, dietro, e ha detto: “Girati e firma!”. Io ho fatto come per firmare, ma poi ho detto: “Non ce la faccio, non ci riesco”. Questo è successo dopo circa due ore dal primo interrogatorio. Quindi, hanno cominciato a cercare le chiavi, per una decina di minuti, poi le hanno portate, hanno aperto le manette e io ho avuto un momento di beatitudine. Ha detto: “Firma!” - “Io non firmo”. E hanno cominciato di nuovo. Era chiaro che se io avessi firmato, al massimo sarei rimasto vivo ancora mezz’ora, letteralmente, il tempo per le formalità necessarie. Allora mi hanno passato ad un altro ispettore che ha ricominciato ad interrogarmi. Ed è ricominciata la stessa storia, mi hanno messo contro un muro, hanno ripreso a picchiare, ancora, a lungo, mi hanno rotto le costole. Ma era inverno, era freddo -il freddo rallenta le reazioni del corpo- e questo mi ha salvato, e poi, ero così agitato che praticamente non sentivo niente. Quello che mi ha salvato è il fatto che io, per tutto il tempo, non ho mai incolpato loro, non ho mai detto che erano stati loro a mettermi le armi in auto, perché in quel caso avrebbero dovuto decidere chi era colpevole, loro oppure io. Ma io ho detto che in quei giorni avevo trasportato soldati russi, tre soldati, che non conoscevo, che erano ubriachi, che loro potevano aver lasciato quelle cose e così via. Così ho addossato tutto su altri che non erano lì.
Ho usato bene la lingua, ho cominciato a prendermela con Dudaev, con Eltsin, e a dire che noi, noi e loro, eravamo tutta gente che vive normalmente e invece, per colpa di quelli stavamo soffrendo, ho detto che a me andava bene qualunque governo. In b ...[continua]

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