ricordarsi, storie
Una Città n° 28 / 1993 Dicembre
Intervista a Giacoma Limentani
Realizzata da Massimo Tesei
UNO SCRICCIOLO DI FRONTE A HITLER
Intervista a Giacoma Limentani.
Voleva dire non sapere mai dov’era tuo padre, non sapere mai se sarebbe tornato o no, poteva esser preso, incarcerato, fatto sparire. Voleva dire vederlo tornare a volte talmente mal ridotto da non sapere se si sarebbe rialzato. Voleva dire che in ogni momento poteva entrare in casa tua questa gente a cercare lo sa il cielo cosa, sfasciando tutto, insultando, dicendo volgarità terribili anche con una bambina. Voleva dire non poterne parlare, dover avere dei segreti che non potevi comunicare alle tue amiche. Avere una vita da adulta dentro un corpo da bambina martoriato a suo modo. Voleva dire guardarsi sempre intorno e sapere che anche le persone per bene che incontravi per strada potevano essere tuoi nemici terribili, perché quelli che venivano poi a farti quelle cose a casa erano persone per bene, che alla domenica vedevo a messa con la famiglia alla chiesa del quartiere. Voleva dire portare di nascosto pubblicazioni o stampati da una parte all’altra, magari andando o tornando da scuola. Voleva dire non avere un attimo di pace quando tutte le persone cui volevi bene non erano sotto i tuoi occhi. Ricordo una persona passata a casa nostra che non vedemmo più per un certo tempo, tanto che pensavamo fosse riuscito ad espatriare, che improvvisamente telefonò. E ricordo ancora bene mamma che gli diceva: "Come, ancora qui... ha bisogno di qualcosa?", "No, volevo solo salutare", "Ah, finalmente può partire", "No, signora, vado a buttarmi nel Tevere...".
Voleva anche dire imparare a non odiare i tedeschi in blocco, perché a casa mia son passati tanti tedeschi non nazisti che fuggivano il nazismo.
Voleva dire che bisognava anche cercare di far ragionare gli altri, sentirsi addosso una responsabilità enorme che non ti abbandona mai più.
Crescere nella casa di un perseguitato politico è stato un trauma molto forte, che però mi ha rafforzata, mi ha dato una spina dorsale.
Fino al ’38 la repressione fu esclusivamente politica. Con l’introduzione delle leggi razziali la situazione per la mia famiglia peggiorò di molto, tuttavia, come si dice, non tutto il male viene per nuocere, io non dovevo andare più con le Piccole Italiane. Fino ad allora ero obbligata a farlo perché se le figlie di tante brave famiglie fasciste potevano ogni tanto con qualche scusa non partecipare, una come me, con un padre in quelle condizioni, non poteva mancare mai.
E siccome da bambina ero uno scricciolo e quindi ero sempre in prima fila, ho avuto l’avventura di vedere Hitler alla distanza di qui a lì. Fu un grande insegnamento. Noi vediamo Hitler nelle caricature, ma ebbi la netta impressione che lui fosse esattamente come nelle caricature. Nessuna faccia umana ha dei segni nitidi, tutti abbiamo delle sfumature nel colore, nei lineamenti, negli occhi, ma lui era un disegno nitido, perfetto. Quegli occhi azzurri, i capelli neri, la pelle bianca, gli zigomi rosa, una melina immobile, era veramente il ritratto di qualcosa senza vita, disumano. Le altre bambine vicino a me trovavano che era bello, ma perché era un disegno, come quelli cui eravamo abituati allora, un disegno senz’anima. Naturalmente la percezione che avevo io dipendeva dal fatto che sapevo il resto. E questo mi separava dalle altre bambine.
E penso che il mio orrore per i dogmi, che del resto è decisamente ebraico, venga dal rifiuto della fissità, della immobilità. E quel viso, allora...
Con l’introduzione delle leggi razziali fui obbligata a lasciare la scuola. Ma ancora una volta una situazione che poteva essere disastrosa si è rovesciata nel suo opposto: l’esperienza della scuola ebraica di Roma è stata una delle più importanti e indimenticabili della mia vita. I bambini e i ragazzi ebrei non potevano andare più a scuola, ma anche gli insegnanti ebrei non potevano più insegnare, quindi confluirono in quella scuola tutti i ragazzi ebrei di Roma ma anche molti fra i migliori professori delle medie, del liceo, dell’Università.
Dei fatti miei, di quello che succedeva a casa; anche lì, per motivi di sicurezza, non potevo parlare, però ero almeno sicura che il mio vicino di banco non mi avrebbe detto di scrivere "viva il duce" e anche quella era una liberazione. In più l’ambiente era abbastanza piccolo e siccome i vecchi di casa, i nonni, si conoscevano un po’ tutti, -tenete presente che il ghetto era stato aperto in fondo solo nel 1870-, ci veniva concessa un’estrema libertà nel frequentare gli amici. In quella scuola nacquero degli amori, dei matrimoni, ma più
...[continua]
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