Zajnap Gashaeva fa parte dell’Unione donne del nord del Caucaso. Insieme a Maja Shovkalova ha partecipato, nel settembre ’95, all’Assemblea dell’Onu dei Popoli di Perugia come rappresentante del popolo ceceno.

Ho cominciato a occuparmi di attività sociali dopo il 26 novembre 1994, quando l’esercito russo è entrato illegalmente in Cecenia a sostegno dell’opposizione che cercava di realizzare un colpo di stato, che però non riuscì. Quando ho saputo quello che stava accadendo, dopo le prime notizie trasmesse in televisione, ho lasciato tutto e sono partita. Io vivo a Mosca, sono sposata e ho quattro figli, ho un marito, ma tutti i miei erano a Groznyj: mia madre, tutti i miei parenti, gli amici. Io sono cresciuta lì. Quando decisi di partire per Groznyj pensavo che sarei dovuta andare a cercare i cadaveri della mia famiglia, era terribile pensare a quello che stava accadendo in città. Sono arrivata il primo dicembre, ma la città era tranquilla, silenziosa: non c’era nessuno, in centro c’erano case distrutte, senza tetto, c’erano carri armati in giro e nessuno usciva di casa. Era una città morta. Non sono riuscita a trovare mia madre, perché c’era già stata l’evacuazione generale, molti erano andati via, scappando in campagna, e anche mia madre era andata a Shatoj, dove abbiamo dei parenti. Ho fatto il giro di tutti i parenti, di tutti quelli che vivevano vicino a noi e stavo già pensando di tornare a casa. Era il 10 dicembre, la gente in città stava ricomparendo, la paura della guerra era già passata, si organizzavano manifestazioni, si facevano appelli ai russi. Erano soprattutto i residenti russi che rivolgevano appelli al presidente Eltsin: "Cosa state facendo? Ripensateci! Qui ci sono molti russi!". Chiedevano che Eltsin si sedesse con il nostro presidente, Djokhar Dudaev, ad un tavolo e iniziasse trattative per una soluzione pacifica. Ci furono molti appelli, manifestazioni, picchetti: la piazza del palazzo presidenziale era piena di gente, giorno e notte. Chiedevano che non si iniziasse una guerra. Avevano paura. L’11 dicembre telefonai a mio figlio, per dirgli che sarei tornata il giorno dopo, perché la situazione in città era abbastanza tranquilla, ma lui mi rispose: "Come fai a tornare, mamma? I carri armati russi sono già al vostro confine!". Quando sono uscita dal centro comunicazioni, qui a Groznyj, mi sono guardata in giro e ricordo che la gente correva, tutti andavano di corsa. Sono passata da una conoscente che abitava vicino e lei mi disse che poco prima alla televisione Gracjov aveva detto che entro due ore avrebbero cominciato a sparare. La mia casa è alla periferia della città, a 18 chilometri dal centro, e avevo l’impressione che nel tempo che avessi impiegato a raggiungerla avrei incontrato già i carri armati. Ho però raggiunto la mia casa prima che arrivassero i carri armati.
Quel giorno, l’11 dicembre 1994, un esercito di più di 250 mila soldati con 5 mila mezzi corazzati è entrato nella nostra repubblica. Per il 12 dicembre era stato fissato l’inizio delle trattative, ma il giorno prima la guerra era già iniziata: noi ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto, colti di sorpresa; tutti erano tornati a casa e nessuno poteva credere che avrebbero potuto bombardarci veramente. I nostri hanno cominciato subito ad organizzarsi, ad alzare barricate, blocchi stradali. Dove abito io, lo Staropromyslovskij rajon, c’è una strada lunga, è una delle vie d’accesso al centro, e la gente alzava barricate ad ogni incrocio. Ed era tutta gente disarmata. Non c’era nessun esercito, nessuna formazione partigiana o, come dicono i russi, "di banditi". Nessun guerrigliero. Era tutta gente che non aveva niente, a mani nude, non sapeva che fare; tutto quello cui erano riusciti a pensare era costruire barricate con tubi, elementi di prefabbricati, ciò che riuscivano a trovare in giro. Anch’io, quando già si erano organizzati i turni di guardia alle barricate, sono andata a portare caffè caldo, alle 2-3 di notte. In questo modo abbiamo affrontato la guerra. Fin dal primo giorno hanno cominciato a bombardare la città. E la gente ha cominciato a morire: ero lì e ho visto i corpi, i feriti. Sono andati avanti così, giorno e notte, "a grandine", "a uragano", sparando in continuazione, le granate cadevano senza interruzione sulla città. C’erano dei momenti in cui si fermavano per qualche minuto, allora tutti ne approfittavano per procurarsi pane e acqua, (c’è stato un forno qui, dove vivo io, che non h ...[continua]

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