Fausto Viviani, sindacalista, vive a Bologna; è responsabile del progetto “Delegato sociale” per la Cgil.

Ci puoi parlare dell’esperienza di “Ritorno al Futuro”?
Agli inizi degli anni ‘90 facevo il sindacalista in una grande cooperativa quando venni casualmente a conoscenza del fatto che di fronte ad un piccolo infortunio una ragazza non era stata subito soccorsa dai compagni di lavoro; chiesi il motivo dell’accaduto e mi risposero che avevano avuto paura: “Sai, si dice che sia una tossicodipendente, non si sa mai…”. Si parlava già di Aids, drogarsi era un reato, il clima era di sempre maggiore intolleranza nei confronti delle persone tossicodipendenti, la nostra cultura appariva sostanzialmente incapace di esprimere un proprio punto di vista, una propria strategia di intervento. Sempre in quel periodo iniziava a manifestarsi in Italia una grande attenzione al fenomeno del volontariato. Allora proposi alla Camera del Lavoro di Bologna -che accettò e sostenne l’idea- di promuovere un’associazione di volontariato chiamata “Ritorno al Futuro”. Il lavoro dell’associazione, nata nel ‘91, si è rivolto in due direzioni: organizzare corsi di formazione sulle tossicodipendenze per delegati e lavoratori, e favorire l’impegno di volontari che vanno nei servizi a dare un aiuto ai ragazzi tossicodipendenti che cercano di relazionarsi con il mondo del lavoro.
Questa esperienza ci consegna alcuni concreti risultati: più di 200 delegati e lavoratori frequentano i corsi, 15 volontari presso i Servizi tossicodipendenze delle Unità sanitarie locali danno informazioni agli utenti sulle opportunità lavorative e nel contempo portano in associazione nuovi stimoli di riflessione sulle condizioni di vita di queste persone, sui limiti dei servizi, sulle diverse cause dell’esclusione e sulle difficoltà a reinserirsi. Nonostante la buona volontà ci troviamo spiazzati, va in crisi la nostra idea di riparazione, per la quale intervenire vuol dire cercare per forza una guarigione e l’azione collettiva è anche la riposta al disagio individuale. Scopriamo che nelle biografie delle persone tossicodipendenti ci sono sempre delle fratture da ricomporre, solo che non è, come pensavamo all’inizio, la ricomposizione di uno specchio che si rompe -quella dello specchio infranto è un’immagine molto usata per raccontare la tossicodipendenza- o di un puzzle andato in pezzi, ma è una ricomposizione che chiede di cambiare necessariamente il disegno originario. Questa esperienza ci insegna che il disagio esiste, è una condizione di normalità, non un’eccezione, quindi bisogna affrontarlo senza illusioni cercando di costruire le premesse affinché questa condizione e i suoi cambiamenti vengano vissuti nella maniera migliore possibile. Ci troviamo a valorizzare maggiormente le pratiche della cura, del porre attenzione, dell’ascoltare, dell’essere accanto, del “consolare”, dell’attendere piuttosto che della ricerca di facili soluzioni. Questa esperienza inoltre ci consegna un’idea diversa di chi sia il “più debole”; seguiamo queste persone quando escono dal lavoro e finiscono in strada, le incontriamo nei servizi perché vorrebbero lavorare ma vivono questa prospettiva come impossibile; scopriamo che esiste la persona tossicodipendente che ha una rete forte, che le consente di vivere gestendo la propria situazione, ma vediamo anche chi muore abbandonato. Perché si drogano in tanti, ma muoiono soprattutto i più poveri e soli. Veniamo quindi a contatto con la realtà dei senza fissa dimora, dei barboni, una parte dei quali sono tossicodipendenti, e ci rendiamo conto di come è cambiata la condizione di quelle che storicamente erano le figure di strada: in passato il barbone era una persona che veniva da contesti di forte emarginazione sociale; agli inizi degli anni ‘90, invece, si presenta una realtà fatta di persone che hanno alle spalle una vita “normale”, persone che hanno subito delle rotture nell’ambito della loro vita, che le hanno portate da una condizione di inclusione ad una di vulnerabilità e poi di esclusione.
Questo cambia il fenomeno dell’emarginazione, ci consegna nuovi problemi, ma anche nuove opportunità, perché queste sono persone che hanno le risorse per poter comunicare.
Quando nasce Piazza Grande?
Nel 1993, unendo le nostre competenze, sindacali da un lato e di volontariato dall’altro e collegandoci all’esperienza di un giornale sul carcere che si chiama le Voci di Dentro, ci viene l’intuizione di lanciare a Bologna un gio ...[continua]

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