Adriano Saldarelli, 28 anni, avvocato penalista a Firenze, giudice onorario a Pistoia, è impegnato con l’Altro Diritto.

Tutto è cominciato all’università, con l’Altro Diritto, un centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, nato nell’ambito del corso di Sociologia del Diritto, da un’idea di Emilio Santoro.
Nel tempo il centro si è specializzato nell’approfondimento di temi che riguardano il carcere, abbandonando piano piano un approccio di tipo scientifico o comunque teorico per dedicarsi all’aspetto più pratico della cosa, fino a trasformarsi nel Centro di Consulenza Extragiudiziale, che oggi è l’attività principale e consiste appunto nell’entrare direttamente dentro i carceri e provare a dare il nostro apporto giuridico e anche non giuridico ai detenuti. Ovviamente ci sono anche dei detenuti ipertutelati, però la nostra attività si è indirizzata verso quelli sforniti di un appoggio esterno apprezzabile, o comunque difesi in maniera saltuaria dai vari difensori d’ufficio e casomai dimenticati una volta entrati in carcere. L’impegno, come dicevo, è cominciato durante l’università. Alcuni poi si sono laureati e hanno fatto altre scelte, sono diventati avvocati o vogliono diventare magistrati, per cui continuano nei limiti del possibile a dare il loro contributo; io pure all’inizio ho investito molto tempo, poi tendenzialmente, per limiti di tempo oggettivi, ho dovuto limitare un po’ la mia presenza. Però credo che per tutti sia stata un’esperienza veramente formativa e anche interessantissima sotto il profilo sociologico.

All’inizio i problemi non sono mancati perché tu entri comunque come elemento disturbatore del quieto vivere burocratico del carcere; arrivi e chiedi delle cose, chiedi che vengano rispettate delle cose. Quindi vieni visto con diffidenza, infatti all’inizio ci siamo dovuti scontrare con difficoltà oggettive poste sia dalle direzioni dei vari carceri sia dalla polizia penitenziaria, che non riusciva ad individuare cosa volevamo, perché noi comunque entravamo ogni settimana…
Abbiamo deciso di avviare questa attività a Sollicciano, il carcere al quale abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre energie.
Devo dire che ormai sono entrato talmente tante volte che probabilmente i vari ricordi si sono sovrapposti. Però la cosa che mi ha colpito di più all’inizio è stata proprio la struttura interna: mi ci sono voluti sei mesi per riuscire a orientarmi. Il carcere di Sollicciano è particolare, ha una struttura architettonica studiata in modo tale da evitare problemi di ordine, è fatto tutto di bracci, è un labirinto stranissimo.
Anche con i detenuti, c’è stata un po’ di difficoltà ad individuare i problemi. Del resto il nostro ruolo è ambiguo, non si capisce bene se siamo dei volontari, dei consulenti, degli pseudo-avvocati, quindi anche per loro non è stato facile…

E’ vero i detenuti spesso non sanno nemmeno l’esatta lunghezza della pena, però è vero anche l’esatto contrario: spesso ti trovi davanti un detenuto che sa molto più di te perché ha fatto talmente tanti anni di galera che ormai conosce tutti gli istituti dall’A alla Z, e sa tutti i trucchi del mestiere, gli stratagemmi.
Diverso il caso degli stranieri, cui spesso mancano proprio gli strumenti, non solo linguistici. Una delle difficoltà di fondo, infatti consiste proprio nella difficoltà ad accedere ai benefici perché non hanno un radicamento nel territorio, che è la condizione di solito basilare per avere un affidamento in prova, una semilibertà o una detenzione domiciliare. Così spesso diventa frustrante parlare con questi stranieri, perché non sai cosa rispondere. Loro vengono e ti chiedono: “Vorrei fare domanda per l’affidamento in prova”, “Bene, ma quando eri libero cosa facevi?”, “Non lavoravo”, “Hai parenti?”, “No”, “Amici che ti possono ospitare?”, “No”, “Che lavoro facevi?, “Mah, ho fatto questo, ho fatto quest’altro, in Marocco”. Ecco, in questi casi non sai veramente cosa rispondere, è un disastro, ti senti veramente male, perché dovresti essere esplicito e rispondere: “Guarda, la galera te la devi far tutta perché non c’è nessuna possibilità”. Certo, ci sono anche le eccezioni, però le comunità di solito sono di tipo terapeutico, e quindi possono coprire solo una certa fetta di detenuti. Per gli italiani è un altro discorso perché comunque la maggior parte ha una famiglia alle spalle, quindi ci sono sempre delle relazioni che puoi mettere in gioco per scardinare questa situazione. ...[continua]

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