Dopo l’11 settembre si è diffuso un senso di panico che ha coinvolto tutti, proprio tutti. Per dire, io ho ripreso a suonare il violoncello dopo tantissimi anni, e mi dà lezione una giovane donna straordinaria, una cinquantenne, quindi molto giovane per me, una bravissima suonatrice. Ebbene, dopo qualche giorno doveva andare a Los Angeles per un concerto, e così mi ha chiamato per dirmi che il giorno dopo non avrebbe potuto vedermi perché aveva deciso di andarci in macchina. E parliamo di una persona adulta, sana, politicamente di buon senso. Perché succede? Io ho 82 anni, ho visto molto, ho vissuto in anni turbolenti, ma credo di poter rispondere che la gente negli Usa non ha la percezione di cosa voglia dire, sul piano politico o militare, vivere precariamente. Intendo una vera precarietà, costante. Qui, invece, parliamo di attentati. Ma gli americani non hanno proprio il senso del pericolo esterno. Del resto, basta guardare una mappa, ci sono 3000 miglia di coste lungo l’Atlantico e 7000 lungo il Pacifico: viviamo in una specie di gigantesca isola protetta. Per questo siamo diventati indipendenti: perché gli inglesi non potevano controllare tutto quel territorio così lontano. Nel 1776 noi eravamo i palestinesi del Nord America, ma gli inglesi non potevano vincere perché ogni qualvolta perdevano una battaglia passavano sei mesi prima che in patria lo sapessero. Io ho scritto di questo…
Insomma, gli americani sono come dei bambini viziati quando si tratta di affrontare una guerra.
Oltre a questo, poi abbiamo una forma di “ignoranza istituzionalizzata” rispetto al resto del mondo. Nelle nostre scuole elementari, medie, superiori, all’università, non viene mai richiesto di sapere alcunché di qualsiasi altro paese. A meno che uno non decida di diventare uno studente di quella specifica materia. Il senso della storia è straordinariamente povero. Io insegno storia e quindi lo so: vedi delle espressioni inebetite appena chiedi qualcosa accaduta solo tre anni prima.
DEvo dire che io, da questo punto di vista, ho avuto un percorso particolare. Fin da adolescente, avevo 16 o 17 anni, gli anni critici, avevo scelto di frequentare un corso di storia in quello che si chiama Community College, a San Francisco, una scuola superiore. Il professore aveva perso una gamba nella prima guerra mondiale. Era molto amaro rispetto alla guerra e anche rispetto agli Stati Uniti e così ci insegnava la storia europea e americana. Io mi stavo appena svegliando al mondo.
Nel 1934 poi a San Francisco ci fu un grande sciopero dei portuali. Riuscirono a trovare un sindacato che li sostenesse e così fu sciopero generale: tutto chiuso, arrivò l’esercito nelle strade, furono anche uccisi degli operai, ci furono i cortei; io avevo 15 anni… Poi venne la depressione; io già avevo lavorato per 5 anni perché non c’erano soldi. Poi diventai molto amico di uno della sinistra, lui aveva 16 anni, io 15, lui era gay, e armeno, era fuggito dall’Armenia perché i turchi stavano uccidendo tutti… Insomma cominciai a leggere per tanti motivi… Anche se, certo, il contesto non spiega sempre tutto. Mio fratello ha preso una strada completamente diversa…
Dopo la seconda guerra mondiale, entrai all’università perché l’esercito conferiva una sorta di abilitazione e poi permetteva la frequenza gratuita, oltre a darti i soldi per vivere. Successe a milioni di giovani. A me però capitò la fortuna di trovare dei bravi professori. Uno di questi aveva scritto forse il miglior libro in inglese sul fascismo, un libro straordinario. Insomma ho cominciato a studiare la storia, ad appassionarmi. Ma tutto un po’ per caso.
Dunque, la gente negli Stati Uniti intanto non sa niente del resto del mondo; in secondo luogo, quando anche sa qual ...[continua]
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